Damabiyah

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Ciò che posso dare è chiuso in casa 

Dal 9 al 14 febbraio

Una bellissima nave ferma al molo: potrebbe salpare, anzi dovrebbe, e al più presto, perché non c’è nulla qui intorno che le possa servire, mentre al di là dell’orizzonte troverà terre nuove e ricchezze. Ma per qualche strano incantesimo la nave rimane qui: il capitano ha terrore dei naufragi e, neanche a farlo apposta, tutte le volte che la nave si è avventurata al largo c’è stato qualcosa che non andava, ed è dovuta tornare precipitosamente. I mesi, gli anni passano. La nave rischia di diventare un monumento alle occasioni perdute, un monito a chiunque la veda: «Non fate come me!» E l’equipaggio vive di piccoli lavori nei docks e negli uffici del porto.

Somiglia a un incubo, sì. E i Damabiyah lo conoscono bene, proprio come i loro quasi gemelli, gli Yeyay’el dei Troni. Sia gli uni sia gli altri devono o hanno dovuto superare quell’incantesimo, per scoprire le loro autentiche qualità e possibilità immense. E che cosa fa più paura: uscire dal porto e abbandonare tutto ciò a cui si era fatta l’abitudine, oppure reggere all’emozione che suscitano il mare profondo, l’orizzonte piatto, la notte senza luci umane intorno? Per i Damabiyah, questa scelta diventa facilmente motivo di panico. Ma la profondità e l’immensità che tanto li terrorizzano sono, naturalmente, in loro stessi: il mare è soltanto l’immagine delle loro potenzialità e della potenza dei loro sentimenti – che sentono essere sconfinate – e del loro meraviglioso desiderio di libertà, che, non appena vi pensano, sembra accelelerare in loro come l’inerzia di chi stia precipitando. Non osano fidarsene, e non per viltà, si badi, ma per una specialissima forma di avarizia. Il fatto è che non vogliano spendersi. Amano troppo se stessi: le acque del porto sono per i Damabiyah come lo specchio d’acqua in cui si contemplava Narciso. In alto mare e in altri continenti – negli occhi di altra gente, nel cuore di qualcun altro – troverebbero magari molte cose interessantissime, ma dovrebbero rinunciare a quelle infinite sfumature di tenerezza che provano a casa loro, quando contemplano i propri occhi, il proprio cuore, nella loro cornice consueta: le abitudini, la famigliola, gli amici… «Chi si volta indietro non è degno del Regno dei cieli», ammoniva Gesù. I Damabiyah lo sanno, e sospirano in porto.

Abilissimi nel costruirsi appositamente lacci e ricatti, possono elencarvi mille motivi per non partire. Incostanza, voglia di raccoglimento, ripugnanza per la praticità, stravaganze, volubilità, insufficiente approvazione e incoraggiamento da parte di parenti o maestri, manie, superstizioni, rancori, sensi di colpa, doveri, affetti, crediti, debiti, promesse… Ma sono soltanto pretesti. E c’è di peggio: per impedirsi di uscire in mare ricorrono anche ai plagi, proprio come gli Yeyay’el, e sono altrettanto bravi nello scegliersi partner che li incatenino. Mobilitano al contempo tutta la loro agilissima, cavillosa e testarda intelligenza, per non lasciarsi aprire gli occhi da nessuno sul danno che stanno facendo a se stessi.

In compenso, durante la loro vita in porto possono diventare ottimi arredatori, cultori della tradizione ed esperti di tutti i meandri dell’anima domestica o addomesticata. Tra i più celebri Damabiyah non salpati si annoverano Boris Pasternak, che nelDottor –ivago narra appunto di un eroe che non seppe salire sulle navi che gli offriva il destino; Georges Simenon, con la sua splendida galleria di crimini fatti in casa, di case-trappole mortali, di vite vissute e distrutte tra i muri; Edison, che guarda caso inventò proprio l’oggetto che sarebbe divenuto più indispensabile nelle case di tutto il mondo, la lampadina elettrica, e varie altre apparecchiature celebri come il fonografo, il telegrafo duplex e il microtelefono, che hanno reso i nostri porti personali un po’ più ameni e hanno permesso di comunicare con il resto del mondo senza doverne per forza uscire.

I Damabiyah, invece, che sono riusciti a spezzare la propria linea d’ombra e a prendere il largo, mostrano spesso la tendenza a distruggere qualche simbolo di prigionia, di immobilismo, come per celebrare meglio la propria vittoria sulla parte di se stessi che avrebbe voluto restare: così, il Damabiyah Abramo Lincoln, che scatenò una guerra civile per abolire la schiavitù; o Brecht, che per tutta la vita lottò contro gli aspetti damabiani della società capitalistica; e soprattutto Darwin, che per elaborare le sue teorie decise di salpare (guarda caso!) per un viaggio attorno al mondo, e in cinque anni di navigazione escogitò per l’appunto la dottrina dell’evoluzione, cioè dell’universale necessità di non fermarsi a quel che già si ha e si è. Lincolniani, brechtiani e darwiniani, a quel che ho potuto constatare, sono in un modo o nell’altro tutti i Damabiyah che abbiano saputo scoprire la profondità delle passioni e l’odio dei limiti: che ci siano riusciti rompendo con la famiglia, o divorziando, o licenziandosi da un lavoro che li abbruttiva, una volta spiegate le vele si fanno un dovere di predicare su grande o su piccola scala la liberazione da qualcosa. Sono magnifici insegnanti, godono nell’essere esempi, hanno la vocazione del Principe Azzurro: e il mondo è talmente pieno di Belle Addormentate.

 

Testo per gentile concessione di Igor Sibaldi, estratto dal Libro degli Angeli

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