‘Imamiyah

ayin-mem-mem

Le apparenze limitano l’orizzonte

Dall’8 al 12 dicembre

Il compito degli ‘Imamiyah è uno dei più difficili e scomodi dell’intero panorama angelologico. È l’Angelo dei prigionieri (quella doppia mem, nel Nome, è anche l’immagine di una doppia cinta di mura), degli schiavi, di chi ha attorno a sé un nemico soverchiante: e a capo del nemico, sulla porta del carcere, sta l’inganno, l’ayin, l’apparenza che nasconde solamente il nulla. Gli ‘Imamiyah devono imparare e insegnare ad accorgersi di quanto la vita dei loro simili venga a trovarsi spesso in una situazione del genere. La gente comune non lo vede, o se anche lo vede non vuol farci caso. Così, per esempio, né l’Occidente né gran parte della popolazione sovietica voleva accorgersi di quanto orribili fossero certi aspetti dello stalinismo e del poststalinismo, quando un fervido ‘Imamiyah come Sol=enitsyn metteva a rischio la vita per denunciarli. Una lunga educazione all’accorgersi delle proprie schiavitù psicologiche e religiose sono anche i libri dello ‘Imamiyah Osho, che venne avvelenato – si dice – per aver scardinato troppe porte di quelle prigioni.

Agli ‘Imamiyah, dicevo, tocca in sorte innanzitutto imparare in che cosa consista l’oppressione: e questa è naturalmente, per la maggior parte di loro, la parte più dura. Pochi hanno la fortuna o l’accortezza di cominciare presto a interessarsi di ossessioni, fissazioni, fobie, sensi di colpa e vittimismo (dei più frequenti carcerieri, cioè, dell’uomo contemporaneo) e di armarsi preventivamente contro di essi. In genere, lo ‘Imamiyah si trova a sperimentare tutto questo di persona: e per anni è costretto, per la sua stessa sopravvivenza, a fare i conti con pesanti fantasmi della propria mente; o magari con gli incubi e le angosce di persone a lui vicine; oppure a subire situazioni di grande solitudine, di incomprensione, di marginalità. Scopre in tal modo che cosa significhi ritrovare se stessi, lottare, difendersi. Accumula ed esercita in questa scoperta un’immensa energia e finalmente – se tutto va bene – può cominciare a fare da guida ad altri.

A volte è già piuttosto tardi, per lui, e certi ‘Imamiyah somigliano all’abate Faria ne Il conte di Montecristo: la poetessa Emily Dickinson, per esempio, che mai poté uscire dal suo villaggio natale, e le cui opere vennero pubblicate solamente postume. Altre volte il duro periodo di apprendistato li segna profondamente, e li rende individui cupi, aggressivi, impulsivi, distruttivi spesso, con anche la tendenza a imporre ad altri rapporti di dipendenza – come per un triste risarcimento, o per una brutta piega rimasta dai tempi delle loro personali schiavitù. Pressoché tutti, infine, appaiono emotivamente chiusi, sfuggenti, e guardano con un’ostilità sospettosa e sarcastica chiunque nel loro ambiente abbia pregi e prestigio – come se in qualche modo rubasse la scena a loro, che dopo così lunga maturazione interiore avrebbero tante cose da dire.

Ne hanno, infatti. Qualunque sia la loro professione, li anima un preciso desiderio di opporsi, più o meno direttamente, a ogni forma di limitazione o anche autolimitazione della dignità umana: cercano e spesso trovano oppressori da smascherare, situazioni ingiuste alle quali ribellarsi. Sognano onestamente la riconquista di un Paradiso perduto, per usare il titolo dell’opera più famosa di John Milton, un ‘Imamiyah anche lui. Come terapeuti sono abilissimi, come sindacalisti e attivisti politici sono spesso esemplari, e in qualsiasi apparato di controllo o nelle forze dell’ordine possono rivelarsi preziosi. Tutto dipende da quanto siano riusciti a liberare se stessi dai taglienti residui del loro istruttivo passato. Il più frequente dei loro rischi psicologici, quando cominciano a darsi da fare per gli altri, è l’idealizzazione eroica della propria figura: sentirsi troppo investiti di una missione non fa bene, agli ‘Imamiyah; il loro senso della realtà tende ad appannarsi, e mentre danno la caccia o aggrediscono un nemico, un oppressore (magari solamente presunto tale) o insegnano ad altri a liberarsi da plagi e prigionie, non si rendono conto di venir presi loro stessi per individui opprimenti; fu così per un ‘Imamiyah dei più cupi e sventurati, il generale Custer, nella cui mente, forse, non balenò mai l’idea che fosse lui il nemico degli indiani, ben più di quanto gli indiani fossero nemici suoi.

È necessario che si abituino a sorvegliarsi; che facciano il meno possibile di testa loro e trovino una causa, una Chiesa, un partito per il quale agire; e possibilmente che, tra tutte le armi per lottare contro le servitù, imparino a preferire l’ironia – che tra l’altro ha il vantaggio di potersi applicare, non appena sia necessario, anche contro chi la usa. Tutte queste cautele sono indispensabili per gli ‘Imamiyah, anche perché permettono loro di non eccedere nel senso di responsabilità personale: se agiscono in totale autonomia e si prendono troppo sul serio, tendono infatti a soverchiarsi di impegni e soprattutto di tensioni, fino a fiaccare la loro fibra fisica e nervosa.

Quanto agli ‘Imamiyah che non si sentono toccati da impulsi altruistici, il loro destino è tra i più cupi. Non solo restano bloccati nella prima fase della loro crescita interiore – nella scoperta dell’oppressione, appunto, e passano così da una prigionia all’altra, nei loro rapporti umani, e da una fase ossessiva all’altra, nei loro rapporti con se stessi – ma cresce e ribolle in loro un’astiosità tutta speciale, rancorosa, invidiosa. Sviluppano la tendenza a trovarsi dei capi, per poi rapidamente tradirli; a incensare un amico e conquistarsene la fiducia, per poi calunniarlo. E non vi è legame, nemmeno famigliare, che ben presto non appaia loro come una trappola da cui liberarsi. È, questa, l’ombra brutta del compito che avrebbero dovuto svolgere. È una compulsione, un altro carcere dunque, e vi è poco da fare, a quel punto: se non se ne liberano da soli, non ne verranno fuori mai.

 

Testo per gentile concessione di Igor Sibaldi, estratto dal Libro degli Angeli

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