Yerathe’el

yod-resh-thaw

Io bramo che ognuno superi se stesso

Dal 3 al 7 agosto

Potrebbe essere l’Angelo di D’Artagnan: il famoso moschettiere ha veramente tutti i tratti dei protetti di questa Dominazione, tanto da far seriamente pensare che Dumas, nel progettarlo, avesse consultato qualche prontuario di angelologia. D’Artagnan è infatti rissoso, temerario, giocatore, idealista, incorruttibile, cavalleresco e, soprattutto, splendidamente leale e generoso con gli amici, moschettieri come lui. Al tempo stesso, è afflitto da un segreto senso di colpa, che in un modo o nell’altro lo intralcia puntualmente nel guadagnare per sé solo; e da un senso d’inferiorità che, se da un lato contribuisce molto alla sua passione per i duelli, dall’altro gli fa cercare sempre qualcuno da venerare (era Athos, ne I tre moschettieri); e da un troppo burrascoso senso d’indipendenza, che ha spesso l’effetto di metterlo in pessima luce agli occhi dei superiori. Verificate negli Yerathe’el che avete conosciuto, e ne misurerete facilmente le intersezioni con tale modello.

Di tutti questi vettori della personalità yeratheliana, il principale e il più delicato sembra essere proprio il senso di colpa: immotivato, di solito (non riferibile cioè a qualche cattiveria compiuta, o al ricordo di sentimenti ignobili covati in cuore), eppure profondo, invincibile, tumultuoso. È certamente alla radice della proverbiale aggressività degli Yerathe’el, che divampa sempre e soltanto contro chi abbia fatto o voglia fare qualcosa di male. Si direbbero paladini perennemente a caccia di felloni, e si intuisce (sia dall’accanimento che mettono nello scovarli e smascherarli, sia dalla malinconia che li affligge quando non ne trovano) che in ciascun fellone essi vedano in realtà se stessi, e lo attacchino perché la loro coscienza smetta almeno per un po’ di tormentarli. Per la medesima ragione lo Yerathe’el ha tanto bisogno di un ideale, e di qualche superiore che gli affidi un incarico, possibilmente audace: perché il suo io, la sua volontà, i suoi desideri gli sembrano sempre indegni, miserevoli, colpevoli. «Che diritto ho, io?» sembra domandarsi sempre, in fondo al cuore. Anche l’amore del rischio ne è una conseguenza, poiché lo Yerathe’el lo interpreta come una forma di abnegazione, come una sofferenza a lui necessaria. E anche l’amore del gioco, nel quale la speranza che la fortuna gli sorrida fa inconsciamente a pugni con un gran desiderio di perdere, per vedersi ancora una volta punito (giustissimamente, ai suoi occhi) dal destino. Del resto, non se la passano meglio gli Yerathe’el più prudenti, più scettici o più miti; in loro le torture del senso di colpa sono soltanto più recondite e perciò ancora più dolorose: causano in loro un senso di perenne sconfitta, o peggio ancora quella speciale repulsione nevrotica verso la gioia e le vittorie, per la quale arrivano a credere di non poter ottenere successi nella vita senza che su un loro caro si abbatta una disgrazia (ossessione, questa, tutt’altro che rara). E appunto perciò fanno pochissimo per sé e molto per gli altri, e se non hanno amici per cui lavorare possono anche ritrovarsi per anni a non far nulla di preciso.

Inutile nutrire illusioni al riguardo. Questa non è una situazione che si possa modificare in alcun modo. La scelta fondamentale della loro vita si pone, bensì, tra due modi di intendere tale nevrosi, in loro congenita: come una condanna, un karma pesante sotto il quale languire, oppure come uno stimolo all’azione. Nel primo caso, si avrà lo Yerathe’el pessimista, burbero, infelice, bramoso di rovesci della sorte, oppure un outsider tormentato, come Percy B. Shelley, tanto disordinato e tragico; o come Maupassant, che morì in manicomio; o come i protagonisti dei film dello Yerathe’el John Huston (dal Tesoro della Sierra Madre Moby Dick); o quelli interpretati dall’inquietissimo, plurirecidivo Yerathe’el Robert Mitchum: in particolare l’ex galeotto de Il promontorio della paura, che del senso di colpa era la personificazione.

Nell’altro caso, invece, gli Yerathe’el possono trasformarsi in perfetti eroi, ed è precisamente il compito a cui il loro Angelo li ha avviati. Occorre soltanto che prendano sul serio quel senso di colpa e lo portino all’estremo. Non possono approvare e amare il loro io così com’è? Non si sforzino di farlo, lo superino, lo trascendano, per dedicare veramente agli altri le loro potenzialità. Godono nel credere di non meritare alcuna ricompensa dal destino? Continuino a godere tranquillamente di questa convinzione, e abbraccino una professione in cui possano aiutare altri a ottenere le ricompense e la felicità che meritano, o a non farsele sottrarre: agenti, produttori, consulenti, avvocati, giudici, carabinieri, medici anche – e in tal caso grandi lottatori contro le malattie, come lo Yerathe’el Alexander Fleming, lo scopritore della penicillina. I benefici anche per loro saranno enormi: oltre a trovare finalmente un concreto e stabile sollievo al loro senso di colpa, si sentiranno amati, utili e necessari, il che per loro è quasi la porta dell’autentica felicità.

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