Un maestro perduto: il Cielo.

Un maestro perduto: il Cielo.

L’uomo dell’antichità traeva ispirazione dalla contemplazione della volta celeste. Il rapporto con il Cielo era manifestato anche da diverse figure divine, ciascuna espressione delle forze del cosmo…

La contemplazione della volta celeste era per l’uomo antico qualcosa di completamente diverso da come possiamo farne oggi esperienza. Non solo per l’assenza della grave situazione d’inquinamento che coinvolge attualmente le società contemporanee, ma anche per l’apertura al miracolo quotidiano di cui si è persa oggigiorno memoria. L’esperienza dell’osservazione del Cielo doveva essere dunque per l’uomo antico di un’intensità che oggi ci è difficile immaginare. Il Cielo si poteva così rivelare quale è: infinito, trascendentale.

Il Cielo ha rivelato all’uomo, nel corso dei millenni, la divinità sia come volta siderea sia come regione atmosferica. Perciò gli dèi delle prime civiltà hanno tutti relazioni con il Cielo. Essi sono connessi sia con i corpi siderali e l’attività meteoritica in esso presente, sia con la potenza che dal Cielo, come regione atmosferica, si sprigiona attraverso le piogge, i tuoni e soprattutto i fulmini (Fuoco Celeste).

Le divinità della volta stellata sono da sempre onniscienti e detentori delle leggi che governano l’Universo intero; esse “hanno occhi che guardano in tutte le direzioni dell’Universo” (le stelle). Le divinità atmosferiche, signori dei fulmini (Giove) o delle piogge (Indra), sono possenti e fecondatori; garantiscono la continuità della vita biologica ma mancano del potere creativo che resta nel tempo prerogativa degli dèi celesti.

Nella storia delle religioni più antiche si assiste gradualmente alla sostituzione di divinità celesti supreme, dal carattere assoluto e trascendente ma spesso lontane dai bisogni più immediati dell’uomo, con divinità attive che possono intervenire attraverso atti fecondi o fattivi come la pioggia, il tuono o il fulmine. Il sacro scende perciò nelle sfere più terrene e le divinità celesti vengono sostituite da altre, rappresentanti di forze che governano i bisogni immediati dell’uomo: divinità solari, lunari e poi ancora terrene (grande madre), spiriti dei morti e degli antenati a cui si chiede grazia e perdono.

Gli uomini tendono a dimenticarsi col tempo del Cielo, troppo alto, infinito, assoluto per poter rappresentare i loro bisogni e comprendere le asprezze della vita. Il Cielo, tuttavia, rimane col tempo vivo nel ricordo profondo dei popoli e nel simbolismo religioso come identificazione suprema del Divino, entità che detiene le leggi e a cui ci si rivolge infine in casi estremi nei quali la vita terrena è minacciata in modo definitivo.

Si assiste in molti popoli antichi allo sdoppiamento della divinità creatrice nella coppia feconda maschio (cielo) e femmina (terra), di cui sono antichi esempi la sostituzione di Anu con En-lil che feconda con le sue piogge la terra Ki presso i Sumeri… Prithivi (la terra) nella tradizione vedica, che ha per sposo il figlio di Dyaus, l’antico dio celeste(*)… Urano e Gea, progenitori dell’Olimpo greco.

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La cosmogonia dei Sumeri influenzò i testi sacri ebraici, islamici e quelli delle altre grandi religioni indoeuropee nei millenni successivi. An, il Cielo, era la divinità primordiale da cui tutto dipendeva e per lui non si facevano riti e sacrifici: An, come tutti gli dèi celesti, è impassibile e trascendente.

Le splendide iscrizioni in scrittura cuneiforme che troviamo in una celebre tavoletta del III millennio a.c., costituiscono uno dei primi, se non il primo calendario astronomico. In essa è inoltre rappresentata l’assemblea degli dèi, chiamati Annunaki ovvero figli del dio An, il Cielo.

Nella scrittura babilonese e assira la parola che designa il divino è dingir ed è rappresentata con un asterismo. Lo stesso termine significa “Cielo” e si traduce anche come “Luminoso, brillante, lucente”. Questo segno, con appunto la forma di un asterismo, esprime il concetto di divino e probabilmente designa gli abitanti del Cielo: le stelle e i corpi celesti luminosi in esso presenti i quali, per i Sumeri come per i Babilonesi, erano tutti composti della stessa materia.

In alcune immagini delle tavolette cuneiformi rinvenute nel secolo scorso presso la città di Ninive, capitale dell’ultimo impero assiro, sono continui i riferimenti al Cielo nei quali si intuisce che i Mesopotamici attribuivano a questa regione l’origine di tutte le cose.

Furono gli Assiri ad assicurare continuità all\’antica religione naturale, dalla quale derivano i miti dei Sumeri e poi dei Babilonesi, attraverso un culto che teneva in particolare considerazione le divinità astrali. Essi diedero alla luce importanti codici astronomici, oltre che preghiere e invocazioni associate a entità astrali. Di queste codificazioni, la più importante e nota è il cosiddetto codice Hammurabi che risale al II millennio a.c., periodo della seconda dinastia babilonese. Su questi codici e iscrizioni si fondarono in tempi antichissimi i principi dell‘Astrologia.

Il Codice di Hammurabi è una fra le più antiche raccolte di leggi conosciute nella storia dell’umanità. Venne stilato durante il regno del re babilonese Hammurabi, che regnò dal 1792 al 1750 a.C. Hammurabi dichiara in questo codice di aver desunto le leggi che debbono governare l’intero popolo direttamente dal dio Sole.

In Mesopotamia, come presso altre civiltà, si assiste infatti alla sostituzione del dio celeste, supremo, creatore ma spesso ozioso e non partecipe, con divinità più fattive e dinamiche quali furono diffusamente gli dèi solari come Marduk in Mesopotamia, Mithra presso il vicino popolo ariano, Ajruna presso i Veda…

In Mesopotamia, come altrove, uno dei più diffusi simboli celesti è la montagna cosmica, il cosiddetto “Monte dei Paesi” che congiunge il Cielo con la Terra, ovvero unisce tra di loro tutte le regioni del cosmo.
Riproduzione del monte sacro è il tempio a forma piramidale; lo Ziqqurat. Esso era il centro della città così come il centro simbolico del mondo intero. Spesso costruito secondo precise indicazioni astronomiche, il tempio doveva essere fulcro delle rivoluzioni universali, perciò direttamente collegato al centro dell’universo: la Stella Polare.

A Uruk, una delle più antiche città stato della Mesopotamia, la zona sacra era consacrata ad An, il Cielo. Fu soltanto più tardi che sorse il tempio di Nanna, dio lunare al quale fu infine dedicata la città.
Alla supremazia trascendente del dio celeste succedette quella di dèi più vicini alle attività dell’uomo, come Nanna e poi Marduk, il dio creatore protagonista del poema epico Enuma Elish e che sconfigge le tenebre, impersonate dal mostro marino Tiamat, per garantire la continuità della vita e della creazione.

Gli dèi solari che si sostituiscono al Cielo, assoluto e immutabile, causa delle cause, sono distributori di forza e vitalità, protettori della vita e garanti della fecondità, ma non posseggono infine l’origine della vita che resta prerogativa delle divinità celesti, sebbene questi ultimi siano meno celebrati attraverso culti e ricorrenze.

In quasi tutte le civiltà antiche la divinità celeste cede il posto a un demiurgo, una divinità, spesso solare, che organizza il mondo ma che è da lui stesso creata e che agisce in suo nome e secondo le sue direttive. Questa è forse una straordinaria intuizione delle civiltà arcaiche pre-scientiste riguardo all’effettiva subordinanza del nostro Sole a un ordine superiore: quello delle galassie e dell’universo intero che contiene in sé innumerevoli centri irradianti come il Sole stesso e le altre stelle, ognuna portatrice della forza suprema identificata con il Cielo in cui ogni forma di vita si muove ed esiste.

Gli esseri celesti supremi sono per eccellenza buoni, creatori ed eterni, spesso rappresentati con sembianze di vegliardi che vengono riattualizzate nelle religioni monoteiste dove il dio supremo ha spesso attributi uranici. Come Jahvè degli Ebrei che si manifesta sotto forma di nubi, di vento, di tuoni o attraverso una colonna di fumo che s’innalza verso il Cielo.

Negli attributi del dio supremo possiamo riconoscere molte delle qualità degli dèi celesti primordiali.
La divinità del Cielo infatti è custode delle norme e fondatrice di ogni istituzione; l’essere celeste supremo inoltre non agisce direttamente ma attraverso una forza trascendente, da cui trapela la sua sovranità legittima e assoluta. Egli non partecipa alle vicissitudine del Cosmo, tuttavia ne è eterno garante e causa ultima e suprema. Per questo gli uomini, col tempo, finiscono per necessità con l’associare i loro culti a divinità più accessibili e più simili a loro.

Una delle divinità più celebrate nella storia della religione indiana è sicuramente Indra che prende il posto dell’onnipotente Varuna nella pratica dei culti della vita quotidiana. Le sue azioni sono piene di vitalità e di baldanza: ha un’energia inesauribile, è un dio vivace, guerriero e fecondatore;  spesso infrange lui stesso le leggi a causa della sua vitalità ed è soggetto alle punizioni di divinità più lontane ma potenti. Egli tuttavia fa circolare l’energia agitando costantemente le forze cosmiche, ed è così immagine della vita che continuamente germoglia e si perpetua.

Come acennato, la più antica divinità del Cielo, rispetto a Indra, è Varuna: presenza imperscrutabile. Il dio agisce con una forza magica senza intervenire direttamente. Varuna non è espressamente un dio del cielo, anche se nel Rgveda si legge che ha occhi che guardano in tutte le direzioni del Cielo, ovvero le stelle. Inoltre la sua continua vigilanza è espressa con altri simbolismi uranici: “Le stelle che in alto si vedono la notte, di giorno vanno da altre parti. Non si possono trasgredire le leggi di Varuna, la luna si muove ogni notte vedendo ovunque”. (Rgveda)

Nulla può sfuggire al dio Varuna, una divinità ancestrale e complessa che comunque riflette molti caratteri assoluti degli esseri supremi del Cielo: l’impotenza, la trascendenza, la forza magica attraverso la quale garantisce la sua sovranità sul mondo senza intervenirvi direttamente.
Garante delle leggi, Varuna è anche il dio che lega (dal sanscrito varatra, “correggia” o “corda”): i suoi impegni sono inderogabili così come le sue punizioni. Gli uomini a lui si rivolgono, così come è il caso di tutti gli dèi supremi, in casi di estreme sventure per avere un condono e per capire quali colpe hanno commesso.

La capacità di garantire le leggi e di favorire l’espiazione viene mantenuta da dèi celesti legati all’atmosfera, dinamici ma supremi, quali sono Zeus per i Greci e Juppiter per i popoli italici. Essi agiscono per mezzo del fuoco celeste, il fulmine, con il quale consacrano i luoghi, iniziano gli adepti al loro culto, puniscono i trasgressori. Il simbolo degli dèi atmosferici è inoltre la quercia, l’albero sul quale più facilmente si riversa la forza del dio sovrano attraverso il fulmine.

Jupiter Fulgurator, dio del Cielo, è una divinità suprema presso i romani. Il nome Jupiter ha collegamenti con il sanscrito Dyaus Pita che elabora la radice dyeu ovvero “splendere”, e nelle forme derivate anche “cielo” e “divinità”. La stessa radice, come abbiamo già descritto, è all’origine della parola dingir con la quale i popoli della Mesopoamia indicavano gli dèi, e che significa “lucente, splendente, relativo al Cielo.”
Dispensatore di tuoni e di fulmini, Jupiter è, presso i popoli italici, l’equivalente di Tinia, divinità suprema nella religione degli Etruschi.

Il cosiddetto “Fegato di Piacenza” è uno dei reperti fondamentali per la comprensione della Cosmogonia Etrusca. Si tratta del calco in bronzo di un fegato ovino sul quale vengono descritte le sedici case celesti, ovvero lo Spazio Sacro abitato dagli dèi.
Le sedici regioni del Cosmo corrispondono dunque a parti del corpo e delle viscere umane che ne rappresentano una trasposizione microcosmica.

 

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L’Arte degli Aruspici, i sacerdoti della Religione Etrusca, si esplicava perciò sia attraverso la lettura dei segnali che provenivano dalle divinità che abitavano il Cielo, sia attraverso la lettura delle viscere umane e animali con pratiche molto diffuse, simili a quelle perpetuate in Medioriente da Babilonesi, Assiri e Caldei. I segnali che provenivano dal cosmo si chiamavano Ostentaria, i più importanti dei quali riguardavano il volo degli uccelli e le folgori.

La più celebre riproduzione grafica del Fegato di Piacenza ci proviene da un manoscritto dello scrittore cartaginese Marziano Capella (V-VI sec.). L’ultima casella, dove risiede il dio notturno e infernale Cilens, dovrebbe coincidere con l’inizio della prima, dimora del dio supremo Tinia, dio delle folgori associato a Giove: esse rappresentano invece i due estremi della suprema altezza e della massima profondità cosmiche, e sono dunque separate dalla massima distanza lungo l’asse che congiunge le quattro regioni principali: il Cielo, il Mare, la Terra e gli Inferi.
Nella riproduzione delle sedici case celesti contenute nel fegato di Piacenza, si individuano quattro quadranti: il 1° Quadrante è da identificarsi con le caselle che vanno da Nord a Est (divinità celesti maggiori: Tinia, Uni). Il 2° con le regioni da est a sud (divinità solari e marine: Nethuns e Catha). Il 3° con le regioni da sud a ovest (regione dei mortali in cui risiedono divinità sotterranee e terrene, come Fufluns e Selvans). Infine, il quadrante da ovest a nord conclude il cerchio con le divinità infere (Cel, Culsu, Vetis, Cilens).
Il cerchio “cosmico” riproduce così l’asse, simbolo comune in tutte le religioni, che collega tra di loro le regioni celesti con quelle infere, passando attraverso il mondo terreno dei mortali.
L’asse del mondo è uno dei più diffusi simbolismi celesti associati all’ascesa e al ritrovamento del centro dei centri, dell’identificazione con la causa delle cause.

Tutti questi dèi subivano infine la supervisione di un collegio di divinità chiamato Di Superiore set Involuti ovvero “Avvolti nel mistero”. La possibilità che questi dèi fossero identificati con gli astri è stata presa in considerazione ma non è ancora certa.
Quello che invece sembra comprovato è la fusione di un altro collegio di dodici divinità superiori chiamato Di Consentas con i dodeka theoi greci a loro volta identificati con le divinità dello zodiaco della tradizione astrologica. Nelle fonti più tarde (Arnobio) si legge infatti che i Di Consentas sono divisi in sei divinità femminili e sei maschili le quali sorgono e tramontano insieme, analogia del perfetto equilibrio che si ritrova nel simbolismo zodiacale.

Durante il Medioevo in Europa, con la diffusione della nuova religione cristiana, gran parte della sacralità antica andò perduta. Il principale contributo alla preservazione dei testi antichi, soprattutto greci e latini, si deve agli Arabi. Nonostante ciò il Cristianesimo mutuò simboli e ritualità del mondo antico trasponendoli in una nuova visione del mondo.
Fu durante il Rinascimento che le conoscenze del mondo classico ed ellenistico vennero rivalutate attraverso il diffondersi del neoplatonismo che conciliava, per certi versi, i princìpi della Kabalah, dell’Astrologia e dell’Alchimia con l’etica cristiana.

Lo Zodiaco divenne di nuovo simbolo del corpo umano, collegando così le regioni e i moti celesti a quelli terreni, un’analogia ben descritta da una celebre e diffusissima miniatura dei fratelli fiamminghi Limbourg tratta da Trés Riches Heures de Duc du Berry, Folio 16 – 1413. Le miniature del ‘400 diffondono i principi dell’Astrologia e dell’Alchimia e circolano, durante questo periodo, nelle corti italiane, specialmente tra i Visconti-Sforza e gli Estensi, questi ultimi acquirenti di uno dei più famosi codici di Astronomia dell’epoca, il bellissimo De Sphaera custodito presso la biblioteca Estense di Modena.

È sempre nella corte emiliana che assistiamo a una delle più felici rappresentazioni dello Zodiaco nella pittura del Quattrocento: il Salone dei Mesi a Palazzo Schifanoia a Ferrara. Ogni mese è suddiviso minuziosamente in tre decani a cui corrispondono segni zodiacali e divinità. L’allegoria e il complesso simbolismo di quest’opera eccezionale trapelano una visione del Cosmo mediata dalla mente umana la quale, dall’epoca moderna in poi, sarà la vera, ma non legittima, sovrana del mondo a cui crede di appartenere.

Se il pensiero e l’immaginazione dell’uomo hanno in questi secoli potuto molto, non hanno ancora ridestato in lui la capacità di vivere il miracolo, che forse risiede in una semplicità ancora da conquistare. Un modo sincero e genuino di guardare e affrontare la vita che l’indagine, intesa come ricerca delle origini, nella storia e nella cultura può insegnarci a ritrovare.

Oltre che nella storia e nei testi sacri patrimonio dell’umanità, le nostre origini si possono rivelare, come fu per i nostri avi, nella semplice contemplazione di un cielo pulito: i miliardi di mondi luminosi che ci appariranno davanti agli occhi, e che illumineranno non solo la nostra vista ma la più autentica visione del cuore, potranno rivelarci al contempo la nostra finitezza e le infinite possibilità della vita. Anche la scienza d’altro canto lo ha affermato da tempo, seppure le notizie a riguardo restino spesso in sordina o sottovalutate: l’inquinamento luminoso è alla radice di molti problemi di depressione e della mancanza di fiducia, che spesso accompagna l’umana indolenza o gli eccessi di aggressività.

Dormire sotto un cielo stellato, contemplando la volta celeste, aiuta a ristabilire i ritmi del ciclo circadiano e la produzione di melatonina, un importante antiossidante. È ormai comprovato come la visione del cielo notturno risolva molte delle problematiche emotive dovute a una mancanza di contatto con la realtà e generate da bisogni e abitudini superflue(**).

Il Cielo limpido e stellato ci mette a contatto con la sola verità; mettendo a nudo il nostro essere, favorisce sogni vividi, rivelatori, veritieri e una lucida intuizione, specchio di una mente serena e di una profonda armonia. Infine, il Cielo si conferma ancora per l’uomo, attraverso milioni di anni, come l’esperienza più autentica e vicina del Divino.

Elisabeth Mantovani

Note
(*) Mircea Eliade – Trattato di Storia delle religioni – Dèi della tempesta pp.82
(**) Per maggiori informazioni a riguardo consultare il sito: http://www.darksky.org/.

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