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45. SPIETATA MADRE

Malessere lieve,
nascosto autore
di un perché furtivo.
La mia personale freddezza:
noncuranza che ti celi sapiente,
ti riveli d’un tratto.
Sapersi assenti,
in un attimo
di vertiginosa presenza.
Confessione silente,
ammissione di colpa, forse.
Oppure no, perché all’ombra sorniona
del film che scorre,
nessuna colpa è abbastanza sensata.
Nessuna colpa
che valga più d’uno specchio
d’atroce riconoscimento
nel ritornello di noi,
copione omofono di una storia nelle storie.
Mai così vera, mai così autentica…
Così autentica che non si può dire,
sarebbe troppo.
Troppo per la tenacia del tuo volermi brava.
Invece sono cattiva.
E fredda, gelida, stronza, indifferente, opportunista…
Hai ancora un disdicevole epiteto
che possa colmare i lunghi anni dell’inganno?
Un misericordioso negativo difetto.
Uno splendido errore.
Un tenace recidivare.
E ancora
lasciami
Madonna e puttana,
concedimi nel dentro la dea della guerra e quella della fertilità.
E guardami come si guarda fino alla compassione più spinta…
Una spietata madre.
Lasciami con la donna oscura
che ha tenuto per mano la bambina.
Protezione e difesa di una strega
che dal sempre dei respiri ha permesso il no.
Furtivo no
di un incantesimo inconscio, celato, non detto,
agito e passivo no,
di chi si sottrae senza sottrarsi.
Com’è dolce adesso
imparare a dirlo.
Sillaba ovale,
no,
suono rotondo di salvezza.
No dalle grandi braccia,
ora che ti pronuncio, esiste un sì. Lo troverò.

ALLE ORIGINI DELLA POESIA

No: la parola che i bambini intorno ai tre anni amano così tanto dire, come segno della propria identità, come alterità dal mondo che li circonda, come possibilità di identificarsi singolarmente, come coscienza di sé. Il sì ha una frequenza di apertura, ricezione, accoglimento ma senza il no è scialbo, compiacente, in un certo senso fasullo. Così come non ci può essere luce senza buio, e nascita senza morte, così non c’è sì senza un autentico no.

Questa poesia si ispira a tante storie di no trattenuti. L’ho scritta per una donna in particolare, ma li ricomprende tutti in fondo. Lei, bella, con una chioma riccia ramata, un talento nella recitazione, veniva da me dopo anni di psicoanalisi. Aveva perfettamente compreso i suoi meccanismi di dipendenza affettiva, ma essi perduravano immutati. Nel mio libro sulle dipendenze affettive, all’interno della serie “Alchimia delle relazioni”, racconto più dettagliatamente la sua storia, ma qui voglio soffermarmi su un particolare che fu, in realtà, perno di un profondo mutamento.

Dopo l’ennesimo rovinoso abbandono e mesi di depressione che le erano valsi anche la prescrizione di una terapia antidepressiva, insieme stavamo cercando di raccogliere i suoi frammenti che la stessa paura dell’abbandono ogni volta disperdeva. In quel periodo di grande raccoglimento, ma anche di profondo incontro con il suo Sé svalutato e piccolo, naturalmente comparvero vari sintomi somatici, tra cui dei dolori alla colonna vertebrale, chiaro simbolo della sofferenza della struttura e dell’autosvalutazione che viveva in lei.

L’incontro con il fisioterapista fu un colpo di fulmine, ma, una volta tanto, per lui. Lui che da quel momento divenne un devoto innamorato, quello che lei avrebbe sempre voluto, presente, affettuoso, dolcissimo. E lei cominciò a sentirsi oppressa, a trattarlo con distacco, con freddezza. Ne era infastidita. Fu allora che comprese che al di sotto di quella donna che si credeva bisognosa di cure, protezione, attenzioni costanti, c’era il gelo. Una donna fredda e scostante.

Come insegna Jung, per ogni qualità che noi esprimiamo, nell’inconscio esiste sempre l’opposto nell’ombra. Quella donna fredda che diceva di no era colei che aveva fatto sempre da madre interna alla mia paziente. Colei che non le aveva permesso di attaccarsi mai davvero a nessuno, scegliendo per lei persone con le quali sarebbe stato impossibile costruire davvero un legame, in modo tale da non soffrire mai più come aveva sofferto per le continue sparizioni del padre, che se ne andava e poi tornava, costantemente in lite con sua madre, donna instabile, che alzava anche il gomito nel tentativo di sanare la sua costante depressione.

Lei, che diceva sempre di sì a quel padre, nella speranza che restasse, lei che non esternava mai un’emozione, per non dare fastidio e poi lo vedeva andare via lo stesso. Aveva un no dentro, urlato e violento, un no da lacerare i timpani, un no che nella sua vita tante volte anche sul lavoro le era rimasto strozzato dentro, e l’aveva resa quella che si definisce in gergo una passiva-aggressiva, una che ti dice sempre di sì ma poi si dimentica le cose, ti fa una ripicca, ti tiene il muso, si offende, invalida o sabota un risultato.

Fu solo quando poté incontrare questa madre spietata che al tempo stesso l’aveva protetta insegnandole come si dice sì senza dirlo davvero e come non si dice no pur dicendolo, fu solo quando la incontrò, quando ne riconobbe la forza e la sofferenza, che poté permettersi di dire sì e dire no quando davvero voleva farlo e valicò quella posizione che gli psicoanalisti le avevano detto essere narcisista, ma lei non aveva mai capito esattamente cosa fosse, né sentito così chiaramente.

Fu allora che poté permettersi di amare ed essere amata.

RIFLESSIONE: LA TUA CAPACITÀ DI DIRE DI NO, LA TUA CAPACITÀ DI AMARE ED ESSERE AMATO

Per questa ragione questa poesia vi invita a riflettere su tutti i no che non dite, o quantomeno che non riconoscete nella vostra vita. Quando non vi permettete di sentire le vostre contrarietà, esse restano compresse dentro di voi. A volte accade persino che dite sempre sì, vi mostrate addirittura entusiasti delle decisioni che gli altri prendono, pur di non rischiare di essere rifiutati e creare disappunto negli altri.

C’è chi ha paura anche di obiettare, chi si convince che “gli va bene tutto”, chi spera che gli altri capiscano, chi tenta di dire di no, ma la prende così alla larga che non arriva mai al punto. Il timore è sempre lo stesso: non essere accettati, non andare bene per l’altro. Il risultato? Uno stato di adattamento frustrante che sfocia poi in episodiche esplosioni di rabbia, di solito con chi non c’entra nulla.

Ma, ammesso anche che così abbiate evitato l’abbandono, e poi sappiamo bene che non è vero neanche questo, provate a chiedervi se siete davvero felici, se siete davvero voi stessi. In questo insoddisfacente equilibrio, voi scomparite, la vostra natura è soffocata. Al tempo stesso dentro di voi vi sentite sempre vittime infelici degli altri e questa è effettivamente, anche se potrebbe non sembrarlo, una forma di narcisismo: al centro ci siete solo voi con il vostro eterno malcontento e la vostra eterna paura di stare male. Seppure contorto e disfunzionale, il vittimismo è una forma profondamente egocentrica. L’antidoto è quello di iniziare ad agire, a far venire allo scoperto se stessi ed entrare per davvero nelle relazioni, a giocare le partite della vita giocando sul serio, cioè sapendo che nel gioco si vince e si perde e la partita può anche cambiare faccia mille volte.

Volete che gli altri vi accettino? Che non vi lascino? Ma se non vi fate conoscere per chi siete, per ciò che pensate e sentite davvero, chi potranno mai accettare? Un simulacro, un ripetitore di sì, che per giunta spesso sono anche falsi? E ancora: avere un’opinione diversa, essere critici, non essere d’accordo significa per forza deludere o non accettare? Gli altri in fondo sono come noi: gli altri non esistono come categoria, sono persone esattamente come noi, ognuna unica e irripetibile, tutte accomunate dalle grandi paure e dalle grandi domande della vita, dagli stessi bisogni, dalle stesse speranze.

Come nella storia che ho raccontato alle origini di questa poesia, di solito accade che quando non esprimiamo la contrarietà, stiamo inconsciamente proiettando la paura di deludere, che è legata a qualche figura dell’infanzia, genitori, fratelli. Pensateci ora, identificate questa figura e lasciatela andare. Allora sarete davvero liberi di vivere il presente e il nuovo che le relazioni dell’adesso vi offrono.

Diversamente vi troverete in realtà sempre ad avere a che fare con i fantasmi del passato proiettati nelle persone del presente.

PROMESSA

Mi permetto di dire di no.
Mi permetto di deludere le aspettative altrui, se sono in disaccordo con ciò che sento buono per me.
Lascio andare le proiezioni del passato, vedo le persone per ciò che sono nel presente.
Mi permetto di avere rapporti autentici e spontanei.
Mi permetto di dire quello che penso con garbo e fermezza.
Mi permetto di amare e di essere amato.
Entro e sto davvero nelle mie relazioni per ciò che sono, penso e sento.

Erica F. Poli

Estratto dal libro Poiesis – Psicoterapia in Poesia (Anima Edizioni)

poiesis

 

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1 commento su “45. SPIETATA MADRE”

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