La città rende liberi?

La città rende liberi? Uomini e complessità: scenari di ecologia profonda.

La città rende liberi. Questo almeno per gli antichi. Liberi. Ma da cosa, per cosa? La città libera gli uomini dal potere della natura (1). L’umanità ha sempre avuto, infatti, la forte tensione ad uscire dalla natura: è una questione di conquista di libertà, è una questione di ricerca di sé in rottura col proprio passato.

La natura, da quando l’homo sapiens ha costruito il primo recinto e lo ha abitato, è diventata altro dall’uomo. Essa è divenuta un oggetto da studiare usare plasmare. L’universo è diventato il campo di analisi per la scienza da un lato, e la filosofia dall’altro.

Sia come machina, per gli scienziati, sia come theoria, per i filosofi, la natura come altro da sé è costata molto all’uomo: la conquista della libertà provoca ad Adamo la cacciata dall’Eden; il primo uomo, al di fuori dal Paradiso (dalla Natura), si scopre nudo, si scopre sofferente, mortale.

Oggi, però, sta maturando quel cambiamento di paradigma cominciato all’inizio del secolo scorso che, in avversione alla visione positivistica e meccanicistica del mondo, porta a fare i conti con la presenza inalienabile di incertezza e con la consapevolezza che il disordine appartiene alla natura e all’uomo tanto quanto l’ordine.

Edgar Morin (2) chiama questa dialogica ordine/disordine complessità. Quella stessa idea di complessità sistemica introduce nei pensieri umani una nuova consapevolezza, un nuovo modo di sentire, che dagli anni ’70 prende il nome di ecologia profonda (dal filosofo Arne Naess).

L’ecologia profonda è il riconoscimento dell’appartenenza dell’uomo ad un sistema, ad una rete di cui egli non è spettatore, né tanto meno demiurgo-padrone. L’umanità si sta rendendo conto che l’intero pianeta è un sistema aperto e complesso, in cui le singole parti (se mai se ne possa nettamente estrapolare qualcuna) non possono esistere separate dalla totalità, e che un’azione su una parte si ripercuote nell’intero sistema.

L’ecologia profonda spinge anche a considerare parti di questo grande sistema le case che gli uomini costruisco e abitano: il luogo della vita, del riposo, delle relazioni profonde non può essere considerato altro dall’uomo stesso o indifferente al suo vivere; la casa, ma del resto anche l’ufficio e la fabbrica, fanno parte della stessa rete e dello stesso sistema in cui siamo tutti immersi. Estremizzando si potrebbe dire che siamo il luogo in cui viviamo, intendendo con questo la viscerale, vitale (o mortifera) interazione che abbiamo con l’ambiente antropizzato in cui abbiamo scelto di vivere.

L’uomo si è accorto (in realtà, purtroppo, solo alcuni uomini) che partecipiamo tutti allo stesso, complesso sistema: questa consapevolezza viene però raggiunta solo da chi si ricorda di derivare dalla terra: c’è un filo rosso che unisce homo a humus (terra in latino), o ad adamè (terra in ebraico, da cui Adamo); lo stesso legame tiene vincolato l’uomo alla parola umiltà. Solo dalla coscienza di questo senso di appartenenza alla terra può nascere quel sentimento di profonda eticità che spinge gli uomini a ritornare in qualche modo a far parte della natura, perdendo, è inutile nasconderlo, un po’ di quella libertà che, anche a fatica, l’uomo ha creduto di potersi conquistare.

Il paradiso è perduto, e credo per sempre, ma nell’uomo resta ancora, in qualche modo, quella tensione verso l’unità con la natura, generata dal primo, originale respiro (spirito) da cui siamo nati e che speriamo possa portare l’umanità a sondare strade nuove, o almeno a darsi nuove priorità e porsi le domande giuste….

E allora qual è la risposta?
È non rimanere delusi dai sogni,
sapere che le grandi civiltà si sono disgregate nella violenza,
e i loro tiranni sono venuti già molte altre volte.
Quando scoppia apertamente la violenza,
la risposta è evitarla con onore
oppure scegliere di schierarsi con la fazione meno ripugnante;
i mali sono inevitabili.
È mantenere la propria integrità,
essere clementi e incorrotti e non desiderare il male,
e non farsi imbrogliare dal sogno della felicità o della giustizia universali.
Questo sogno non si avvererà.
È sapere tutto questo.
È sapere che per quanto brutte possano apparire le singole parti,
l’insieme rimane bello.
Una mano mozzata è una visione terribile,
così l’uomo reciso dalla terra, dalle stelle e dalla sua storia…
di fatto o perché immerso nella contemplazione…
È alle volte un’immagine atroce.
L’integrità è la totalità, la grande bellezza è la totalità organica,
la totalità della vita e delle cose, la divina bellezza dell’universo.
Ama tutto questo, non l’uomo separato,
altrimenti dovrai condividere le sue misere confusioni
o annegare nella disperazione quando i suoi giorni si oscureranno.

[R. Jeffer, The Answer, da Selected Poetry, 1938]

NOTE

(1) Cfr.: J. Ritter, Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna, Milano, Guerini e Associati, 1994.
(2) Edgar Morin, Introduzione al pensiero complesso, Milano, Sperling&Kupfer, 1993.

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