C’era una volta… papà

C’era una volta… papà

Quando un genitore attiva un “programma di denigrazione” contro l’altro genitore, provoca uno shock nel figlio con il facile rischio di un disturbo psicopatologico, che minerà la sua autostima e la capacità di rapportarsi in modo costruttivo con le prove della vita.
Pochi conoscono e poco si parla della Sindrome di Alienazione Genitoriale, un disturbo psicopatologico che colpisce i figli, solitamente in un’età compresa tra i sette e i quindici anni, nel contesto di separazioni e divorzi conflittuali. In tale sindrome, originariamente proposta da Gardner nel 1985, si descrive come «un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (alienato)» e suggestiona a tal punto il figlio, così che il rapporto fra il figlio stesso ed il genitore alienato si degrada e, talvolta, si interrompe.

Uno degli effetti più disastrosi di questo indottrinamento, ovvero la principale manifestazione di questo disturbo, è che il bambino assume su di sé pensieri e comportamenti del genitore alienatore e finisce per mostrare lo stesso astio e disprezzo verso l’altro, che poi avvertirà come suo, proprio come se gli appartenesse. Si tratta di un abuso emotivo capace di produrre una significativa psicopatologia sia nel presente che nella vita futura dei bambini coinvolti.

Nonostante il 1° comma della legge sull’affidamento condiviso reciti che «anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale», di fatto, una delle evoluzioni più frequenti delle separazioni è che i figli siano affidati alla madre con il risultato di una crescita esponenziale di famiglie monogenitoriali, ovvero famiglie composte solamente da madri e figli.

In questo contesto non considero i casi nei quali un padre sparisce e si allontana volontariamente dai figli, ma quel gran numero di casi in cui è il genitore affidatario che mette in atto progressivamente una serie di comportamenti volti a svalutare e denigrare l’altro genitore e il suo allontanamento. Purtroppo questo avviene di frequente con la complicità di avvocati pronti a sostenere funzionali fantasticherie di comportamenti violenti e con un sistema giudiziario che non interviene né per comprendere la relazione genitoriale distrutta dal conflitto, né per sanzionare i comportamenti lesivi del genitore alienatore.

Nel valutare le capacità genitoriali per la custodia dei figli, la presenza della Sindrome di Alienazione Genitoriale è considerata uno degli elementi di maggiore gravità e negli USA, dallo scorso anno, un gruppo di lavoro è impegnato per il riconoscimento ufficiale di questo disturbo: è necessario avere un atteggiamento di grande prudenza per non incorrere in valutazioni inesatte in presenza di altre forme di abuso o trascuratezza.

Separare un figlio dal proprio genitore determina sempre un trauma: un processo che, se non riconosciuto e affrontato, coprirà l’intero sviluppo della personalità e tutte le successive fasi della vita; è questo il messaggio che voglio dare a tante giovani madri che, dopo aspri conflitti coniugali terminati solo apparentemente con la separazione, sono convinte di aver ragione del loro rancore e risentimento nei confronti dell’ex marito e coinvolgono i figli disorientandoli e costringendoli a una scelta forzata.

Ci sono altre madri che, pur di cementare a sé i propri figli, mettono in atto comportamenti altamente lesivi e devastanti nei loro confronti: iniziano con una campagna di denigrazione della figura del padre e, con lo scopo di separarli da lui, ostacolano i loro incontri. I figli si alleano con la madre e la perdita di contatti significativi con il padre fa sì che nei rarissimi colloqui non riescano più a ricostruire un dialogo adeguato e una relazione affettiva costruttiva. Gli incontri diventano fonte di stress per entrambi e sono vissuti in modo traumatizzante, così che la perdita di contatti può diventare totale e separarli del tutto e per sempre.

Questo è ciò che riferisce una ragazza, figlia di separati, ormai adulta: «Pur di vincere, mia madre si era inventata una serie di bugie su mio padre, sui torti che le aveva fatto e su come ci trattava quando andavamo da lui. Mi ricorderò sempre l’espressione di trionfo con cui lo fulminò, quando in tribunale il giudice le dette ragione. Il suo obiettivo non era il mio benessere, come diceva, ma il desiderio di umiliare mio padre».

(Dai figli non si divorzia di Anna Oliverio Ferraris)

Il movimento per l’emancipazione femminile, per far valere i propri diritti, ha portato avanti la sua lotta contro il mondo degli uomini e dei padri rafforzando, involontariamente, il destino di milioni di bambini, figli di genitori separati o divorziati, che hanno perso definitivamente il padre attraverso la dissoluzione della famiglia tradizionale. Pur riconoscendo il processo di liberazione della donna come originariamente produttivo, devo aggiungere che ha contribuito nel tempo a portare avanti un’impietosa svalutazione dei padri e della loro funzione, fino a ribaltare il senso del danno dovuto alla mancanza di questa figura, nel suo contrario.

A coloro che negano il trauma della mancanza del padre, vorrei ricordare che una madre che alleva da sola un figlio non sarà mai in grado di compensare le conseguenze dovute al danno che questa assenza comporta. Il vuoto che un padre perduto lascia dietro di sé significa sempre dolore, lutto e solitudine come testimoniano queste parole scritte, sul web, da due ragazzi che hanno realmente e in modo prematuro perduto il loro papà. In occasione del 19 marzo scrivono: «Caro papà, sono due anni che non sei qui con me… ogni giorno mi accorgo che sei per me indispensabile, mi manchi sai e vorrei dirti tante cose, tutto quello che non ti ho detto prima… ti stringo forte forte e ti custodisco nel mio cuore… tuo figlio Francesco». «La vita mi ha tolto mio padre, mi ha tolto il sorriso, mi ha tolto il pezzo di cuore più grande. Il bacio di una principessa regalato al suo re… Ines».

Si evince che l’effetto traumatico della scomparsa di un padre dovrà sempre essere compensato ed elaborato da chi ha subito questa perdita. L’identificazione con il padre e l’interiorizzazione di una sua “immagine interna positiva” sono componenti necessarie alla propria individuazione e affermazione; le conferme, le cure e gli stimoli forniti dal padre servono in maniera determinante all’autostima, senza la quale una realizzazione di sé risulta impossibile. Il padre rappresenta un modello importante per l’autocontrollo e l’apprendimento delle norme sociali ed è un presupposto determinante nella costruzione della coscienza e della struttura morale.

Svalutare e denigrare il padre con i propri figli e svalutarne la sua funzione, oltre a determinare in loro una delle più gravi patologie da separazione e un grandissimo trauma simile a quello di chi ha subito un lutto reale, vuol dire contribuire alla formazione di una “rappresentazione interna negativa” di questo genitore, con la quale i figli dovranno sempre confrontarsi e fare i conti. Lo shock della separazione e la conseguente, costante rinuncia a un padre che vive ed esiste, incidono nei processi di maturazione psichica e ostacolano la costruzione di un sé stabile. Occorre un corretto ambiente di sostegno idoneo ad ammortizzare l’effetto traumatico della sua scomparsa.

Come diceva Giovanni Bollea, padre della neuropsichiatria infantile, da poco venuto a mancare e che desidero ricordare, «il padre è la via attraverso cui si entra in società».

 .

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Lascia un commento con Facebook

Torna in alto