Niyitha’el

nun-yod-thaw

Il mio agire è fruttuoso quando guardo oltre ciò che già c’è 

Dal 17 al 22 dicembre

Fu proprio un 17 dicembre, centoquattro anni fa, che il biplano dei fratelli Wright decollò su una spiaggia brumosa, e per una decina di secondi solcò incredibilmente l’aria. L’era del volo a motore non sarebbe potuta cominciare sotto migliori auspici celesti: Niyitha’el è l’Angelo dei nuovi cammini. I suoi protetti guardano impazienti sia il proprio orizzonte interiore, sia gli orizzonti di cui il loro tempo si è accontentato, e fin dove giunge lo sguardo non trovano nulla che dia senso alla loro vita. È come se ciò che la gente già sa intralciasse la visuale dei Niyitha’el; le certezze li opprimono, non c’è posto, nel loro animo, per cose come la stabilità, il senso di sicurezza, di protezione. Guido Gozzano era Niyitha’el, e ciò che lo rende tanto incantevole in certe sue famose liriche – scritte negli stessi anni degli esperimenti dei Wright – è proprio quel suo modo di guardare alla quieta vita borghese come a un oppio, o addirittura a un veleno, dolciastro e mortale, con cui tanti si suicidano e lui no:

«Dove andrà?» – «Dove andrò? Non so… Vïaggio.
Vïaggio per fuggire altro vïaggio…
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio…»
La signorina Felicita                     

Viaggiare! Compose un libro di liriche sulle farfalle (poter volare!) e poi partì per l’India, per contemplare le montagne più alte del mondo. I Niyitha’el non possono che sorridere, riconoscendo nella sua opera poetica tutta la gamma emozionale di quelle esitazioni che possono trattenerli anche per decenni, prima del decollo – come risulta anche, in versione pop, dalla canzone più memorabile della Niyitha’el Gigliola Cinquetti, Non ho l’età. E quando finalmente decidono di averla, l’età, allora partire, per loro, è smettere di morire. Diventano d’un tratto i massimi esperti della Provvidenza, che com’è noto assiste e finanzia soltanto chi si mette in gioco. Scoprono in se stessi un’energia tanto più strabiliante quanto più si lasciano indietro qualche limite: La Terra il Mare il Cielo l’Universo per usare un altro verso gozzaniano, da In morte di Giulio Verne. Si pensi al Niyitha’el Steven Spielberg.

Gioiscono anche nel fermarsi, al di là di qualche confine appena superato – geografico, estetico o morale: non fa grande differenza per loro –, per dare lezioni di coraggio a chi non l’ha varcato: come Paul Klee, nell’arte astratta; o Jean Genet, con la sua vita di scandali. Non per nulla il loro santo è il Niyitha’el Thomas Becket, l’arcivescovo di Canterbury, che preferì farsi uccidere piuttosto che sottomettersi agli ordini del suo re. E fu il Niyitha’el Paracelso il primo a sostenere che i processi chimici sono gli stessi nel nostro corpo e nella natura (che voglia d’immenso!), e venne perciò sbeffeggiato dai colleghi nelle università d’allora; per tutta risposta, diede scandalo mettendosi a insegnare in lingua popolare – in tedesco – invece che in latino, allora d’obbligo. Viaggiò a lungo, fino in Russia, Asia e Africa, sempre insofferente di ogni autorità. Alterius non sit, qui suus esse potest, era il suo motto: non decida di appartenere a un altro, chi può appartenere a se stesso! Perfetto talismano contro la peggiore tentazione dei Niyitha’el, che è quella di placarsi, di non cercare più. Fino a che osano più di chi li circonda, anche i loro difetti possono risultare pregi: i modi provocatori, la testardaggine, l’ambizione, e addirittura la frettolosità con cui liquidano le opinioni altrui, non appena vi annusano tracce di conformismo…

All’opposto, questi difetti possono divenire altrettanti tormenti per loro stessi e soprattutto per gli altri, quando i Niyitha’el, invece di partire, rimangono, o invece di insubordinarsi si adeguano: la loro ambizione si trasforma allora in ansia, in terrore di perdere il poco che hanno (è sempre poco, per loro), e in gelosia, in invidia; la testardaggine, in stupidità; la voglia di provocare, in cinica rabbia, prodromo di depressione.

In buona parte di loro, tale trasformazione è d’altronde ciclica: l’umore cupo riappare ogni volta che rallentano, e svanisce quando ricominciano ad accelerare. Tutt’altro che facile è la loro vita sentimentale; il matrimonio, specialmente, li delude con grande rapidità. Deleterio è per loro qualsiasi lavoro fisso che non implichi, oltre ai viaggi, anche rischi o frequenti imprevisti. E guai ad averli come capi: la costanza e i compromessi che la carriera avrà loro imposto non potranno non averli incattiviti, e l’idea stessa di avere dei sottoposti – di doversi adattare ai tempi, ai limiti altrui – li farà sentire perennemente come aquile in trappola, disperate, penose.

 

Testo per gentile concessione di Igor Sibaldi, estratto dal Libro degli Angeli

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