Molti di noi sono rimasti stupiti scorgendo sulle foto dei giornali quelle indemoniate orde di monaci tibetani riversarsi infuriate nelle strade di Lhasa, in preda a un’incontenibile collera, all’indomani della scadenza dell’ultimatum cinese del 18 marzo.
E’ parso infatti ai più strano vederi svelata un’immagine dei religiosi così contrastante rispetto allo stereotipo con cui la nostra società convive. Nonostante sia comprensibile che la pazienza possa avere un limite (anche per chi, come i tibetani, crede nella pace come valore universale), l’opinione pubblica, invece, probabilmente non abbastanza scossa dalle crudeltà e dalle censure della Repubblica Popolare Cinese, si è trovata addirittura a commentare l’ira dei monaci con un certo cinico qualunquismo. Abbiamo infatti sentito opinionisti esprimere superficiali concetti quali: “Ma questi monaci, che violenza!”, oppure “Ma non erano dei riflessivi?”, o bassezze di questo genere su cui non è il caso di soffermarsi oltre.
Bene, da oggi cade anche questo capo d’imputazione per un popolo a cui viene impedito non solo di professare la propria fede ma a cui vengono pure negate le stesse proprie istituzioni. La foto che riportiamo, infatti, svela il drammatico inganno, la sapiente regia cinese, nell’orchestrare mediaticamente la repressione. Non bastavano le migliaia di soldati partiti alla volta del Tibet, non erano sufficienti le morti civili, sadicamente nascoste. Bisognava anche dare un’immagine esterna che ponesse degli interrogativi, che non lasciasse la Cina sola con la sua evidente colpevolezza. E allora alcuni delle migliaia di soldati giunti nella regione, non trovando pretesti polizieschi per intervenire con la forza, hanno ricevuto l’ordine da Pechino di inscenare una ribellioneche svelasse il lato oscuro del popolo tibetano, fatto di foga, irruenza e follia. Peccato che questi temibili monaci intenti a bruciare case non fossero altro chesoldati cinesi, muniti dallo stato di tonache e cinture.
A svelare l’inquietante, quanto sospettabile, quadretto ci ha pensato l’agenzia governativa britannica delle comunicazioni, la Gchq, che controlla gran parte del pianeta dallo spazio. La foto ritrae gli attori-soldati prepararsi al primo atto della messa in scena. Uno spettacolo preparato per il pubblico occidentale talmente abituato alle finzioni politiche, da non rendersene nemmeno più conto, tantomeno nei casi più eclatanti, come in quel settembre di 7anni fa e come ancora oggi.
Intanto, mentre le maschere dell’esercito si impegnano per seminare panico e paura, continua invece quella che davvero è l’espressione dell’animo tibetano, questa volta, per una volta, orgogliosamente in linea con lo stereotipo del pacifismo di cui parlavamo prima: il 10 marzo è infatti partita da Dharamsala (residenza indiana del governo tibetano esiliato) una marcia pacifica verso “casa”, verso il Tibet. Si tratta di sei mesi di marcia per arrivare al confine cinese in occasione della settimana d’inaugurazione dei più controversi giochi olimpici di tutti i tempi.
Provvisti di ogni accessorio, come un vero popolo nomade, organizzato per il ritorno in patria, i tibetani attraverseranno l’India per giungere al confine nord-est del paese dove si confronteranno con le autorità indiane. Poi sarà la volta di quelle cinesi, stavolta non travestite. Speriamo soltanto che il tutto non si concluda, sotto gli occhi del mondo intero, in un ennesimo e gratuito spargimento di sangue. (gv).
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