Daniy’el

daleth-nun-yod

Io giudico ciò che si è manifestato 

Dal 28 novembre al 2 dicembre

Dn, in ebraico, è una radice che significa «giudicare», ma in base a un’idea di giustizia lievemente diversa da quella che solitamente pratichiamo noi. Noi riteniamo che sia già gran cosa riuscire a pesare e punire, o premiare, le azioni in base a certi principî che la maggioranza ritiene validi. Dn, invece, è il valutare le azioni in base alle loro conseguenze: la lettera daleth indica, in geroglifico, «la capacità di separare, di distinguere», e la nun «i risultati dell’agire ». Si tratta dunque di un modo più realistico di fare chiarezza, di comprendere i comportamenti umani; dal punto di vista, poi, di chi ha compiuto o subito un’azione sbagliata, dn fa balenare anche un’idea diversa del perdono. Per noi, infatti, perdonare qualcuno significa sostanzialmente rinnegare, nel suo caso, i principî di giustizia, dimenticarli o ritenerli meno importanti dell’individuo (e il rischio è, naturalmente, che a forza di perdonare in tal senso, quei principî finiscano con l’indebolirsi); mentre nel dn è inclusa anche l’idea che si debba sempre «separare» l’individuo dalle azioni che ha commesso: e che dunque chi ha rubato non sia per ciò stesso un ladro, ma semplicemente uno che a un certo punto ha commesso un furto; e, allo stesso modo, che chi ha sbagliato vita non sia un fallito, e chi ha patito un torto non sia una vittima, e via dicendo.

Dayan, «giudice», diventerebbe insomma colui che, dopo aver analizzato qualche guaio, ha il dono di dire a chi vi era coinvolto: «Ecco, è passata, sei di nuovo tu: ora puoi vedere meglio, imparare da ciò che è avvenuto e ricominciare in un altro modo». E i Da niy’el hanno precisamente questo potere, e possono trarne grande vigore, ispirazione e gioia.

Sono per loro natura saggi e sensibili, avidi di verità e altruisti: mentre la maggioranza degli uomini si ritrae inorridita o disgustata dinanzi agli errori o ai guai di un loro simile, i Daniy’el ne sono attratti per vocazione, sentono il profondo impulso a sciogliere i lacci che legano il futuro altrui, come se quel futuro fosse il loro. Brillano dunque in qualsiasi campo dell’assistenza: come operatori sociali, specialisti della riabilitazione, educatori in scuole difficili; talvolta diventano una benedizione anche come psicologi, benché non dispongano di una specifica Energia Yod. Ma, a parte questi loro ambiti più appropriati, vale sempre la regola secondo cui quanto più uno scopre e sviluppa le doti del suo Angelo, tanto più si estende il suo campo d’azione: e, quindi, quale che sia la professione di un Daniy’el, la scoperta e lo sviluppo dei suoi impulsi a migliorare la sorte altrui non potrà che accrescere la sua fortuna. Era Daniy’el Friedrich Engels, che trascurò la sua florida ditta per togliere dalle ristrettezze economiche Karl Marx e finanziare la diffusione delle sue opere: ed elaborò insieme con lui la più celebre delle ideologie moderne in difesa degli sfruttati e il miglior sistema – a tutt’oggi – di scindere e analizzare le componenti e le forze di una società ingiusta. È Daniy’el anche Woody Allen, che nelle sue opere analizza lui pure, meticolosamente, le dinamiche dei lacci psicologici e morali che imprigionano la personalità dell’individuo civilizzato, apparentemente normale.

E individuare un laccio, nella vita interiore come anche nella società, vuol già dire aver cominciato a sciogliersene: il dn si basa su quella fondamentale legge del limite, per la quale nessuno che abbia visto un proprio limite ne rimane davvero bloccato, poiché sarebbe stato impossibile vederlo se non si fosse già giunti più in là di esso. Perciò i «giudizi» dei Daniy’el hanno sempre un effetto corroborante: alita dalle loro analisi lo slancio di una nuova voglia di vivere, di nuove speranze, oltre che la viva percezione di una vittoria morale, magari su noi stessi, quando vediamo che qualche nostra sconfitta è dipesa soltanto da un nostro comportamento errato, e (dn!) ci accorgiamo che nulla ci impedisce di comportarci altrimenti da lì in poi.

Quanto invece al delineare progetti concreti per un avvenire migliore, i Daniy’el non sono altrettanto precisi e attendibili. Il loro compito è giudicare, non costruire. Il Daniy’el Winston Churchill, per esempio, fu un’ottima guida per gli inglesi nelle loro circostanze più critiche, nella Prima come nella Seconda guerra mondiale, ma rivelò una scarsa lungimiranza nei periodi postbellici. Nella direzione del futuro, l’immaginazione danieliana sembra evaporare, come se si dissolvesse non appena i guai del presente e del passato cessano di ancorarla alla realtà; e solo in arte certe loro dissolvenze riescono meravigliosamente – nelle visioni di William Blake, per esempio, o nelle ville di Palladio. Ma tant’è: i Daniy’el consapevoli avranno comunque da fare a sufficienza, nel presente, per il bene di moltissimi.

Feroci sono invece le conseguenze di un loro eventuale rifiuto dei propri talenti. Un Daniy’el che decida di occuparsi soltanto del proprio personale benessere viene regolarmente assediato da inconvenienti, che gli faranno desiderare per sé proprio ciò che avrebbe dovuto fare per gli altri. La vita lo porrà in situazioni di sconfitta, di oppressione, di disperazione anche, tanto più dure quanto più proverà a desiderare qualcosa e a esporsi per ottenerla. Un’unica via d’uscita, assai magra, la troverebbe nel tenersi da parte in tutto, in una qualche professione-guscio, senza azzardare mai nulla, senza mai nemmeno tentare di conoscere la propria autentica personalità (perché anche questo sarebbe un desiderio, e dunque un esporsi): un po’ come la maschera che proprio Allen ama indossare nei suoi film, per esorcizzarla. Così dimesso e impaurito, il Daniy’el renitente non avrebbe che da perdersi in una qualche massa e fluire con essa, sperando che a quella massa non capiti nulla di male, o che eventualmente salti fuori un qualche Daniy’el sveglio e volonteroso a soccorrerla nelle fasi critiche.

 

Testo per gentile concessione di Igor Sibaldi, estratto dal Libro degli Angeli

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