Elamiyah

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Al di là delle nebbie, io amplio gli orizzonti

Dal 5 al 10 aprile

I protetti di questo Serafino sono autentici veggenti: percepiscono sia il futuro, sia ciò che si nasconde nell’animo del loro prossimo. Se adoperassero questa dote ne ricaverebbero – e farebbero ricavare a chi li ascoltasse – vantaggi enormi, tanto più che la loro specialità consiste nel cogliere gli aspetti più concreti, economici, finanziari, di tutto ciò che la loro veggenza può esplorare. Ma non sono bravi a farsi prendere sul serio: sia perché temono un po’ questi loro poteri, sia perché temono ancor di più il successo, il clamore che susciterebbero. Sarebbe così bello e così facile, per loro: occorrerebbe soltanto che si lasciassero guidare dallo stupore (una sottile sensazione di sorpresa è, nella loro mente, il semplicissimo segnale di quel radar portentoso di cui dispongono dalla nascita), e che aggiungessero allo stupore un minimo di curiosità, di tensione dello sguardo interiore verso qualche obiettivo ben definito. In un attimo avrebbero tutte le risposte, ma non vogliono: sono persuasi che, venendosi a trovare sotto gli occhi di molti, non potrebbero più tener nascosto qualche aspetto della loro personalità, che a loro sembra troppo umile, insignificante.

Peggio ancora: ipercritici come sono verso se stessi (è questo infatti il loro maggior difetto), credono che una qualsiasi dose di successo darebbe loro alla testa, e farebbe emergere in loro difetti assolutamente odiosi, come presunzione, insolenza, volgarità. Così, la maggioranza degli ‘Elamiyah preferisce tarparsi, e va incontro alla dura sorte di chi rifiuta i propri doni straordinari: invece di fornire alimento a qualche altra qualità più ordinaria, quei loro doni inutilizzati diventano così un impaccio, e frenano, come spiriti indignati, ogni altra carriera, costringendoli a esistenze mediocri, a ruoli sempre di secondo piano. Non è un problema da poco, e quanto più lo si analizza, tanto più appare complicato. L’umiltà degli ‘Elamiyah ha infatti ragioni anche più profonde, e inscindibili da quegli stessi loro poteri: si esprime in essa il caratteristico fastidio che gli individui spiritualmente più evoluti provano nei riguardi di tutto ciò che è egocentrico.

La loro veggenza deriva da una superiore altezza del loro animo, la loro attenzione per il concreto è una forma d’amore per la realtà terrena che vorrebbero migliorare, rendere più facile, per il bene altrui: e né in alto, dentro di loro, né in basso, nella dedizione agli altri, rimane alcuno spazio per il compiacimento o anche soltanto per il benessere di quello stretto involucro che è, per loro, il loro io. Non per nulla la tradizione vuole che proprio il 7 aprile cada il Natale di Buddha. Che fare, dunque? Molti ‘Elamiyah non riescono, per così dire, a essere all’altezza della loro stessa altezza: e vivono cupi, frustrati, lacerati tra il loro desiderio di nascondersi e la consapevolezza di valere molto, tra il disprezzo che avvertono verso se stessi e il sogno della stima che sentono di meritare. In queste condizioni, quando la loro veggenza preme e vuol emergere, si dedicano magari al gioco d’azzardo: e la loro invincibile repulsione per il trionfo non tarda a far loro scialacquare tutto quello che sono riusciti a vincere. Oppure la deviano verso le percezioni alterate dalle droghe – nel tentativo, si direbbe, più di placarla, o di giustificarla in qualche modo, che non di acutizzarla – e invece che veggenze hanno visioni: così fu per esempio per Baudelaire, disperatissimo, con l’oppio e l’hashish. Altri trovano il modo di utilizzare le loro doti attraverso le arti visive: invece che nella veggenza, si impratichiscono nell’uso di obiettivi fotografici o cinematografici, e alcuni riescono a convogliare qui, davvero, il loro talento. Così fu per il documentarista Folco Quilici, o per Francis Ford Coppola – che, tra l’altro, raffigurò ottimamente un tipico elamiano nel suo film Tucker, storia di un inventore e industriale ispirato, troppo profetico perché la sua epoca lo potesse ascoltare.

Anche il giornalismo può piacere agli ‘Elamiyah, purché naturalmente lo intendano come un modo di vedere più in là, di cercare nelle e dietro le notizie ciò che i loro colleghi non sono ancora arrivati a scoprire: fu così per il più famoso giornalista della storia, l’‘Elamiyah Joseph Pulitzer; in Italia, è un ‘Elamiyah Eugenio Scalfari. Ma i più felici sono quelli che, senza cercare compromessi con il loro presente e con le aspirazioni della stragrande maggioranza dei loro simili, si dedicano senz’altro all’altruismo: ad aiutare cioè i più deboli a vedere oltre le loro attuali condizioni. Ne ho conosciuto uno, anni fa, e lo ricordo con ammirazione: era un istruttore di giovani affetti dalla sindrome di Down.

Insegnava loro a non temere il mondo delle persone sane – che era un aldilà, per loro – e faceva molti piccoli miracoli: i suoi allievi imparavano a scegliersi una professione, a non scoraggiarsi dei propri errori, a muoversi con sicurezza per le strade, ed era come se qualcuno avesse insegnato a noi che cosa fare per trarre il massimo vantaggio da ciò che dovrà accaderci tra dieci o quindici anni. Soprattutto, li educava a non aver paura dei propri successi e, come sapevano gli antichi, «il medico cura sempre se stesso»: proprio aiutando altri a non intimidirsi di sé, il mio amico istruttore cessava di ritenere il suo io un luogo troppo stretto; era amato, popolare tra i colleghi e i genitori degli allievi, e irradiava un’armonia di cui raramente ho visto l’eguale.

 

 

Testo per gentile concessione di Igor Sibaldi, estratto dal Libro degli Angeli

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