mem-he-shin
Io cerco gli orizzonti dello spirito e della conoscenza
Dal 10 al 15 aprile
Il senso d’infinito nei folli discorsi dei personaggi di Aspettando Godot del Mahashiyah Samuel Beckett, e la possanza e la solitudine di Conan il barbaro, nel film più celebre del Mahashiyah John Milius: ecco i due poli del mondo dei protetti di questo Serafino, individui tanto grandi quanto solitamente incompresi, e del tutto indifferenti, per di più, al fatto che i loro contemporanei li comprendano o meno. Ciò che a loro interessa è sempre altrove, e molto lontano: i confini del loro animo sono troppo ampi perché la realtà del nostro mondo possa occuparvi un posto di qualche rilievo. Li attrae semmai la mistica, la religione (meglio se una religione antica, che in nessun tempio si pratichi più); li attrae sempre la conoscenza, perché la loro mente è agile e ha appetiti vigorosi: ma per quanto vasta possa essere la loro erudizione, tenderà sempre a consistere di argomenti che all’atto pratico si rivelano del tutto inutili, astratti, dinanzi ai quali il loro interlocutore alzerà le sopracciglia, perplesso, a meno che naturalmente non sia un Mahashiyah lui pure.
E loro lo sanno bene. Perciò sembrano non avere alcun compito da svolgere, in questa vita; semplicemente si trovano un lavoro (o qualche animo buono glielo procura), non si curano che non abbia pressoché nulla a che vedere con loro, rispettano l’orario, e nient’altro. Non colgono le occasioni che la vita offre loro, le guardano passare; sono insoddisfatti del loro matrimonio, e annoiati, per lo più, dalle loro amicizie, ma non se ne fanno un cruccio: hanno talmente tanta energia da poter sopportare qualsiasi cosa o persona, e con tutti appaiono generosi, disponibili, tranquilli, tolleranti anche, salvo in quei casi in cui un non-Mahashiyah provi a imporre loro una qualche opinione troppo concreta, o peggio ancora a scuoterli da quel loro particolare modo di vivere. Allora reagiscono, si impuntano, e a questo mondo si contano sulla punta della dita le persone che potrebbero convincerli di avere torto.
Gli imprevisti, le tempeste, a volte, li smuovono. Di solito sono bravissimi a schivarle: così profondamente distanti da tutto, privi di ambizione, rapidi a rassegnarsi e a lasciar perdere, offrono ben poco bersaglio alle intemperanze del destino. Ma quando qualche ondata della vita li travolge, scoprono di avere tutte le doti necessarie a superare la prova: reggono al naufragio, aiutano chi vi è coinvolto con loro, sanno ricostruire quel che è crollato, e fare anche in modo che la situazione, alla fine, sia migliore di quella che era andata distrutta. Ma poi regolarmente ritornano alle loro abitudini astratte e introverse, così come un santo ritornerebbe alla sua ascesi dopo una breve tentazione: ancor più certi che la Terra non abbia nulla da offrire, né in bene né in male, che possa adattarsi ai loro gusti.
Con tutto ciò, una loro missione i Mahashiyah la svolgono, e di non poco conto: incarnano un punto di vista superiore dal quale considerare la nostra vita e ridimensionare ciò che noi – molto spesso – ci sforziamo di considerare importante, ed è invece del tutto secondario. A loro preme soltanto il presente (non per nulla fu un Mahashiyah il più celebre fotografo dell’Ottocento, Nadar): e quanti altri perdono invece ogni ora e ogni giorno del proprio presente, per proiettarsi con l’animo nel futuro prossimo o lontano, o per continuare a dibattersi in rimorsi e rimpianti passati! I Mahashiyah ritengono fermamente che non esista modo più stupido di rovinarsi l’esistenza. Aspettare Godot! E perché? Possono sembrare un po’ punk, ma sono in realtà filosofi nati, maestri di relatività, e ascoltarne attentamente non tanto le parole, quanto lo stato d’animo, l’interiore stabilità che attraverso le parole si esprime, è sempre benefico e rasserenante. Potrebbero essere ottimi insegnanti, analisti, se solo si convincessero che ne valga la pena, e avessero la pazienza di interessarsi alle descrizioni che gli altri danno dei propri problemi. Ma dato che questo non avviene pressoché mai, conviene semplicemente tenerseli cari, se capita di averli come amici, e ricorrere a loro nei momenti di stress, come a un antidoto o, mal che vada, a un calmante.
Quanto allo stress in cui possono incorrere loro, è di una sola natura: si verifica ogni volta che, per esperimento o per una qualche suggestione ricevuta, i Mahashiyah cominciano a voler vivere come gli altri, a porsi cioè qualche obiettivo preciso e a lottare per conquistarlo. Diventano allora i peggiori nemici di se stessi. Commettono errori insensati, trascurano tutti i dettagli che si riveleranno poi fondamentali, sprecano puntualmente le risorse che hanno destinate allo scopo, svendono o vogliono far pagare troppo cari i loro talenti. Ne deriva facilmente un disastro; e dopo il disastro un senso di frustrazione cocente; e con la frustrazione, una tempesta di disperazione e paura di sé e degli altri. Poi passa e, come sappiamo, dopo le loro tempeste i Mahashiyah si riprendono abbastanza in fretta e, contemplando il mondo da lontano e dall’alto, si domandano perché sia venuto loro in mente di fare tutta quella fatica. Non c’era motivo, infatti. Meglio che si considerino serenamente e incurabilmente sani a modo loro, e si godano la loro dimensione esclusiva, come un bel promontorio sul fiume degli affanni altrui.
Testo per gentile concessione di Igor Sibaldi, estratto dal Libro degli Angeli
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