Sa’aliyah

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Io tutelo tutto ciò che cresce 

Dal 3 al 7 novembre

È logico, da un punto di vista angelico, il fatto che Vivien Leigh venga ricordata soprattutto per la sua interpretazione di Scarlet in Via col vento. Vivien era nata il 5, e Scarlet (Rossella) era una Sa’aliyah perfetta, un repertorio completo dei pregi e delle ombre di quest’Angelo delle Virtù. Impersonandola, la grande attrice inglese provò probabilmente emozioni straordinarie, quel senso di armonia, di forza, di pienezza di significato che si avverte quando si è totalmente se stessi, e che ha impresso per sempre il suo volto nell’immaginario dell’umanità. Come Scarlet O’Hara, i Sa’aliyah sono nati per proteggere e nutrire il maggior numero possibile di esseri viventi: una grande fattoria, con allevamento e piantagioni, è veramente il loro ideale. Più fanno per gli altri, e meglio stanno; sono egoisti e imperiosi quel tanto che occorre (e a volte si ha l’impressione che sia tantissimo) per irrobustire la loro fiducia in se stessi, per reggere alle responsabilità di cui il destino sembra averli caricati, ma di cui in realtà sono andati in cerca loro stessi, perché così esigeva la loro vocazione di nutritori. Hanno inoltre un’inesauribile Energia Yod: e chi non ricorda la scena dello sconfinato lazzaretto di Atlanta, con Scarlet che lo attraversa sgomenta, prima di correre ad assistere Melanie che partoriva? Lì entrambe le vie dell’Energia Yod si trovarono d’un tratto a coincidere: quella medica, in Scarlet, e quella della recitazione, in Vivien. Sincronicità hollywoodiana. Connaturata ai Sa’aliyah è anche l’avversione per gli arroganti, molto evidente nel modo in cui Scarlet trattava il suo innamorato, il tronfio avventuriero Rhett Butler; e poi ancora: la versatilità, la capacità di apprendere rapidamente qualsiasi cosa da cui si possa trarre un vantaggio pratico; la seduttiva disinvoltura nei rapporti con gli altri, specie per quel che riguarda il chiedere aiuto quando occorre; la tendenza a creare dipendenze, grazie anche a un indiscutibile fascino naturale; la sostanziale indifferenza per i valori morali dei più; e l’abilità sia nello smascherare le bugie altrui, sia nel far passare le proprie bugie per vere, quando non vi sia altro mezzo per tutelare il benessere loro e di chi a loro si è affidato; e infine il dono di riuscire non soltanto a reggere alle avversità, e a superarle, ma anche di trasformarle, lucidamente, in occasioni di più profonda scoperta del proprio animo.

Nella Georgia dell’Ottocento, certo, la vocazione al contempo latifondistica e imprenditoriale, che è tipica dei Sa’aliyah, poteva trovare applicazione più facilmente di quanto non avvenga oggi nelle nostre città. E in un appartamento, infatti, una Scarlet dei giorni nostri non può non sentirsi frustrata e deperire: non servono a nulla i malinconici tentativi di trasformare, poniamo, il terrazzo in una tenuta miniaturizzata, moltiplicandovi i vasi di fiori; o che si procuri più d’un gatto e d’un cane a cui badare; e una famiglia, per quanto numerosa, non basterà a farla sentire utile come vorrebbe. I Sa’aliyah devono per forza pensare in grande. Se l’agricoltura è loro preclusa, si trovino o magari si inventino un’impresa da gestire, meglio se in qualche settore legato all’alimentazione: andrà bene di certo. Oppure si occupino di beneficenza, e diverranno dei leader in quel campo; o tentino una carriera politica: daranno prova, anche lì, di brillanti capacità organizzative – per quanto sia alto il rischio, in questo caso, che il loro immoralismo e l’ansia per il benessere della loro famiglia prendano troppo il sopravvento (come avvenne al Sa’aliyah Giovanni Leone, costretto a dimettersi da presidente della repubblica, per scandali finanziari). Quanto alla professione medica, la loro Energia Yod vi si troverebbe perfettamente a proprio agio: ma in un ospedale assai più che in un ambulatorio e, attenzione, in mansioni di infermiere più che di dottore – per l’antipatia che suscita in loro chi si dà delle arie, e per il loro irresistibile bisogno di darsi da fare tra molta gente bisognosa di cure e di simpatia umana. I Sa’aliyah più intellettuali possono conseguire notevoli risultati nella ricerca scientifica – in economia, biologia e farmacologia soprattutto – ma anche lì il successo dipenderà dalla misura in cui potranno manifestare, accanto alle loro doti di scienziati, anche la loro aspirazione a proteggere, aiutare, nutrire chi lavora con loro. Marie Curie, per esempio, nata il 7, due volte premio Nobel, fu doppiamente fedele al suo Angelo: si dedicò allo studio di un fenomeno prettamente saliano, la radioattività (la proprietà, cioè, che hanno certe sostanza di emettere spontaneamente energia), ed ebbe accanto il marito, scienziato anche lui, di cui si prese sempre amorevolmente cura. Da sconsigliare ai Sa’aliyah è, invece, la letteratura: la solitudine, il nevrotico bisogno di silenzio non possono soddisfare la loro generosa brama d’azione e di contatti umani; lo dimostrò la perenne, profonda inquietudine del Sa’aliyah Albert Camus, con quell’espressione da prigioniero, che assunse quando divenne soltanto uno scrittore, e con la sua morte tanto precoce, che parve una fuga.

Cupo, sempre, è infatti il destino dei Sa’aliyah che non hanno modo di sfruttare il loro potenziale. Vedono scappare uno dopo l’altro i loro partner, soffocati e spaventati addirittura dalle attenzioni con cui li sommergono; oppure si lasciano sfruttare da parassiti che hanno individuato in loro a colpo sicuro, galline dalle uova d’oro; o semplicemente si disperano nella vita ordinaria, e arrivano a distruggere chi e ciò che hanno, pur di avere poi qualcuno da aiutare a risollevarsi, qualcosa da ricostruire.

 

Testo per gentile concessione di Igor Sibaldi, estratto dal Libro degli Angeli

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