yod-yod-yod
Io vedo il modo in cui gli altri guardano, e guardo oltre
Dall’8 al 12 luglio
Yod-yod-yod è una delle formule superlative con le quali gli antichi rabbini indicavano l’indescrivibilità di Dio: la lettera yod, in geroglifico, significa infatti sia «manifestarsi», sia «scorgere», e l’Altissimo è Colui che eccede nell’una e nell’altra cosa: si manifesta infatti al di là di tutto ciò che già si è manifestato, e avvolge ogni orizzonte che la nostra vista interiore possa sperare di cogliere. I protetti del Trono Yeyay’el ricevono una scintilla di questo eccesso, fin dall’istante in cui aprono gli occhi, e hanno il compito di adoperarla e farla fruttare nel mondo umano. Mostrare, e mostrarsi: ecco ciò che ci si attende da loro. E quando lo intuiscono, si accorgono che la vita offre loro occasioni in abbondanza, modi ed energie per realizzare capolavori di vario genere, in tutti i campi che riguardino il destare, richiamare, dirigere ed educare l’attenzione.
I limiti che devono imparare a superare sono due soltanto: la tentazione dello specchio e la vertigine, che li apparentano strettamente ai protetti dell’Angelo Damabiyah di febbraio. Negli specchi, nell’eccesso di autoanalisi, nel narcisismo, gli Yeyay’el possono rimanere bloccati a lungo, ipnotizzati dalla loro immagine (molto bella, spesso), dall’inesauribile ricchezza di dettagli che i loro occhi riescono a cogliervi. Nel vedere sono infatti autentici genî; scoprire, interpretare, risalire da un’espressione del volto ai più riposti segreti della personalità e dell’anima: tutto ciò dà loro un piacere incomparabile, e nulla può essere più dolce, per loro, del gustare questo piacere per sé soli, lasciandosi portare dal morbido vortice che si forma quando le loro tre yod guardano se stesse. Uno specchio può allora divenire un mondo intero – e lo Yeyay’el Marcel Proust ne ha fornito una magnifica dimostrazione, negli otto volumi della Recherche, tutti dedicati a ciò che il protagonista vede del proprio vedere. Ma ovviamente non tutti sono Proust, e può avvenire che l’autofascinazione porti qualche Yeyay’el a una gran perdita di tempo, solamente.
L’altro loro limite è, dicevo, la vertigine: ovvero quello sgomento da cui pressoché tutti gli Yeyay’el si lasciano prendere quando, volgendosi via dallo specchio, permettono al loro potente sguardo di esplorare il mondo intorno, e di vedere il vedere altrui. Il piacere che ne provano è ancor più forte, il gusto della scoperta è addirittura travolgente: in brevissimo tempo sanno individuare i confini dell’immagine che gli altri hanno del reale e del possibile, e li superano, si avventurano verso il nuovo… e ne avvertono il panico. Molti, moltissimi Yeyay’el vacillano, a questo punto: abbandonano, fuggono, naufragano magari, quasi temendo che se osassero proseguire si dissolverebbero. È il loro modo di percepire il terrore del successo – e anche qui si hanno esempi illustri: da Giovanni Calvino, che nella sua teologia ebbe a un tratto assoluto bisogno di immaginare una predestinazione, per limitare la libertà del volere umano, e che nella prassi divenne, a Ginevra, un severissimo persecutore del libero pensiero; fino a Modigliani, che alle soglie del successo naufragò amarissimamente.
Bisogna dunque che gli Yeyay’el si armino contro queste loro Scilla e Cariddi: Narciso e il brivido dell’altura. Rischiano, se no, una sorte casalinga o impiegatizia, assurda per loro, che sono nati per rivelare nuovi modi di vedere il mondo. Rischiano di incappare in padroni ottusi (padroni, sì, da cui lasciarsi plagiare) o di collezionare parassiti, che li tengano in porto, arenati in un conservatorismo timoroso, superstizioso, soffocante. In questo modo, gli Yeyay’el finiscono con il recitare per tutta la vita la parte del sognatore che sospira tra sé, ma nelle sue azioni non osa mai scostarsi dall’immagine che gli altri hanno di lui, come se fosse suo dovere rassicurarli ed evitare che si facciano domande sul suo conto. Sarebbero conquistatori, invece: hanno un fascino e un’intensità di sentimenti che attendono soltanto il loro permesso per dispiegarsi come vele. E perché il permesso arrivi dal loro cuore, hanno bisogno di una fiducia in se stessi d’un genere tutto particolare: non tanto nelle proprie qualità di cui abbiano giù avuto qualche prova, ma in ciò che di se stessi non sanno o non capiscono ancora. Mettersi in gioco lasciandosi guidare dall’ispirazione, dalla passione, dall’intuizione fulminea: come una vela dal vento, davvero. Quanto a ciò, un ottimo maestro potrebbe essere per loro Forrest Gump, che non per nulla portò a un successo mondiale lo Yeyay’el Tom Hanks. O qualche decennio prima, e in toni meno surreali, Yul Brynner, che iniziò la sua splendida carriera come trapezista in un circo: gli occhi di tutti puntati su di lui, e il rischio…
Ecco, si allenino a questo, gli Yeyay’el, e la velocità, l’originalità, l’audacia della loro mente saranno le loro magnifiche alleate. Gli occhi puntati: Armani è nato l’11. Vedere e far vedere: Pissarro e De Chirico nacquero il 10. E inventare, scoprire, far scoprire: come biologi o pubblicitari, creativi o impresari, divulgatori, giornalisti, scienziati, o magari esperti finanziari (J.D. Rockefeller fu bravissimo a vedere e a far vedere ai suoi soci possibilità di investimenti di capitale), gli Yeyay’el avranno carriere magnifiche, purché imparino a non esitare al pensiero che, appena si metteranno in azione, sarà probabilissimo che cambino il mondo.
Testo per gentile concessione di Igor Sibaldi, estratto dal Libro degli Angeli.
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