Si può perdonare una malattia? Una depressione? Un tumore? L’obesità? La sclerosi multipla?
Si può fare e quando accade, succedono cose straordinarie nella coscienza.
Perdonare una malattia significa permetterle di fare parte di noi, esattamente il contrario di ciò che siamo abituati a fare quando applichiamo alla cura le metafore della battaglia, che vedono la malattia come un nemico e la cura come una guerra per debellarlo, con il paziente come un bravo soldato che con spirito pugnace deve applicare gli ordini del medico comandante.
Perdonare una malattia significa ribaltare questo paradigma, significa mettersi nei panni della malattia stessa, personificarla in modo gestaltico, farla parlare, infine arrivare persino a ringraziarla per quanto sta facendo per noi.
Una mia paziente si ricorda bene il giorno in cui le proposi di perdonare il morbo di Paget che affliggeva il suo capezzolo destro. Fu come una scoperta, fu quasi uno shock: cominciare col dire “ti perdono per” e lasciar emergere tutta la rabbia, la paura provata, le fantasie più orribili su come si sarebbe potuto deturpare il suo seno con una eventuale progressione di malattia… proseguire poi chiedendo perdono al morbo stesso, questo sembrava già troppo.
Eppure da farsi perdonare ce n’era e lo scoprimmo insieme: tutta la paura e la rabbia emerse prima che erano come un non voler guardare, un non voler sentire, un non voler sapere quello che il corpo aveva detto, prima sussurrato, poi urlato con il sintomo.
Le lacrime già scendevano, ma era niente ancora rispetto alla profondissima commozione che salì a un acme energeticamente quasi intollerabile, tanta era la sua intensità, quando le chiesi di entrare nella forma del morbo di Paget, diventarlo lei stessa. Fu lì che ci fu quasi un gemito urlato: fu investita da una profondissima desolazione, una solitudine, un senso di rifiuto, il contatto con una parte di sé degradata perché negletta, non vista, rifiutata. Fu un’epifania: lacrime e uno stringersi nelle spalle e nelle braccia come a volersi abbracciare, come a riabilitare una parte di sé.
Fu da lì che le cose cominciarono a mutare radicalmente, anche la risposta alle varie terapie convenzionali cambiò nettamente.
Si tratta di un mutamento nella coscienza che, in virtù dell’asse psiconeuroendocrinoimmunologico e della biocoerenza quantistica, può mutare la reattività di tutto il sistema biologico.
È molto importante che si comprenda come il processo non veda come soluzione l’individuazione di una causa psicologica della malattia, che, come ho già detto nei precedenti capitoli, sarebbe l’equivalente di un’altra equazione meccanicista, semplicemente applicata alla psiche invece che al corpo, ma come muovendo profondamente le dinamiche psichiche si possa avere una trasformazione della coscienza in grado di catalizzare una quota di energia nel sistema molto maggiore di quanto accadesse prima.
Giovanna è molto scettica: razionale com’è, perdonare il tumore sembra una follia. Ma anche lei, forse con meno pathos espresso da Milena, arriva allo stesso punto. Si immedesima nel tumore e lo trova come un feto, pulsante e affaticato, che vuole vivere, non vuole morire, vuole essere tenuto, accolto, chiede di essere aiutato, ha persino paura di lei.
Nadia è terrorizzata, non vuole fare la pratica del perdono perché teme quello che troverà. Lo ha sognato il tumore che le parlava, qualche notte prima, e le diceva che c’era un errore nel suo computer, che doveva riconnettersi alla corrente.
Marco ha una depressione cronica resistente: perdonarla sembra impossibile, ma quando arriva lì, trova un mucchietto di ossa, quelle di suo padre, morto suicida. Macabra visione che gli parla e gli chiede perdono.
E che dire di Giorgia che incontra le sue cellule tumorali durante un’ipnosi… Le trova inizialmente ostili ma perché smarrite: la chiamano sovrana, le dicono perché le ha abbandonate ai confini del regno, senza mai andarle a trovare, senza mai fare visita come una brava regina dovrebbe fare ai suoi sudditi. Lei è colpita, quasi interdetta: chiamata sovrana si sente imbarazzata, non è all’altezza. Invece le cellule tumorali le dicono quanto la amano, quanto aspettavano questo momento. La rassicurano persino, sono loro a dirle quanto si trascura, quanto ha abbandonato e ignorato ingiustamente il suo potere. Del resto la Mère era giunta a dire che nei suoi dialoghi con le cellule le aveva trovate persino docili…
Le cellule in ipnosi parlano a Giorgia del sacrificio che stanno compiendo per lei, disposte a tutto, pur di riavere la loro sovrana. Riemerge dall’ipnosi decisamente scossa, e per la verità anche io con lei. Eppure dopo anni il suo tumore è fermo, non ha più avuto progressioni e lei si chiede in cosa ancora non ha recuperato la sua sovranità visto che lo ha fatto in buona parte delle dimensioni della sua vita, cambiandola radicalmente.
E infine Maria, con lesioni gravi da psoriasi: sotto ipnosi vede le lesioni come fossero cavità laviche incandescenti nelle quali la materia si fa e si disfa e comprende il senso profondo della sua malattia come tentativo continuo di fare barriera e disfarla.
Il perdono della malattia, così come l’ho organizzato nella pratica clinica a mano a mano che si co-creava con le persone che giungevano da me, prevede anche la formulazione di una domanda, terribile e magnifica. La stessa che Gesù Cristo rivolge a Giuda quando gli dice: “Quel che sei venuto a fare, fallo subito”. Questa affermazione richiede una preparazione coscienziale ed emotiva ad hoc, per la potenza di ciò che smuove, ma al momento giusto è in grado di catalizzare un’energia per il salto quantico davvero impressionante.
Immaginate uno stato di profonda concentrazione, a seguito di un lavoro emotivo già avviato e in un’alleanza terapeutica consolidata: in questo campo di coscienza facciamo risuonare la frase, rivolta alla malattia, “quel che sei venuta a fare, fallo subito”. Ecco che tutte le peggiori paure, le angosce di morte, di solitudine, l’impotenza, la rabbia emergono alla coscienza in un istante e si presentano all’abreazione catalizzando un’energia straordinaria per l’integrazione di coscienza.
Ricordo il caso di quella che chiamerò Lucia. Mi venne inviata dal suo stesso oncologo. Era stata operata per un carcinoma mammario, e stava facendo la terapia ormonale come da routine. Ma la sua storia aveva scosso anche il collega. Infatti otto mesi prima aveva perso il suo secondo figlio, dopo pochi giorni di vita per un’ischemia, probabilmente legata a un problema di anticorpi rivolti alla placenta. Una terribile diagnosi che la faceva sentire in colpa di avere “ucciso” il suo bambino tanto desiderato. Tre o quattro mesi dopo il lutto, la madre di Lucia aveva sviluppato un tumore mammario e dopo altri tre o quattro mesi anche Lucia.
Il collega mi disse che la signora voleva riprovare subito ad avere un altro figlio, interrompendo le cure ormonali, il che avrebbe potuto essere anche fattibile, se non fosse che la signora era davvero in uno stato emotivo molto alterato, con ansia, malessere, irritabilità… Quando mi giunse, fu chiaro che il lutto non era stato elaborato: elaborarlo, poter accettare che quel figlio non ci fosse più significava confrontarsi con la “colpa” di quegli anticorpi antiplacenta prodotti durante la gravidanza, con la rabbia verso i medici che forse avrebbero potuto accorgersene, con la rabbia per come le era stata comunicata la notizia… Con il fantasma terribile di essere una cattiva madre, come quella che aveva avuto lei e con la quale ancora il conflitto era aperto.
Fu toccante e intensissimo il breakthrough di lutto e poi di rabbia che ottenemmo con la ISTDP. Solo dopo aver mobilizzato tutto questo fummo pronte per perdonare… se stessa, la madre, gli anticorpi, i medici, la malattia… che quel che era giunta a fare l’aveva fatto: aprire il vaso di Pandora su una sofferenza che esisteva da ben prima del lutto che sembrava avere scatenato tutta la vicenda.
Capii che avevamo davvero fatto un salto quantico quando Lucia mi chiese se fosse sbagliato l’aver pensato che poteva anche non fare un secondo figlio, visto che ce n’era uno già vivo, il suo primogenito, il quale non vedeva l’ora di stare con lei, che aveva dovuto riprendere a lavorare presto quando lui era nato, per ragioni economiche, e così sentiva di averlo trascurato. Per questo ci aveva tenuto tanto ad averne un secondo, ora che avrebbe potuto dedicarcisi di più e dimostrare, a se stessa in realtà, di non essere una cattiva madre. Forse era proprio per questo che il secondo figlio non era rimasto in questa dimensione, perché lei capisse che non esistono cattive madri, esistono solo madri in difficoltà e finalmente si perdonasse per come aveva gestito la prima maternità e per avere la madre che aveva. E perdonando se stessa, perdonò anche la madre.
Il dono più grande del lutto fu di restituirla alla madre che era e che poteva essere, come in fondo le aveva detto col suo linguaggio il tumore che si era manifestato proprio nella ghiandola della madre, in quel seno che rappresenta universalmente la madre.
Erica F. Poli
Estratto dal libro Anatomia della Coscienza Quantica (Anima Edizioni)
Grazie molto interessante ma io non riesco a perdonarlo questo tumore che prima si è portato via mia mamma e ora è arrivato da me e mo sta facendo vivere la paura l’angoscia che ha vissuto lei per tanti anni non riesco a guardarmi il seno non mi accetto così.. non so veramente come superare tutto questo