Attraverso l’atto di volontà consapevole, si può andare oltre le dipende emozionali. Per scoprire che l’emozione del sentire la “gioia dell’anima” è il vero centro di ogni religiosità.
Domenica mattina alle ore undici, ora solare, confido a due amici la mia perplessità a trattare l’argomento “emozioni” e loro mi hanno dato la conclusione: “Le emozioni vanno vissute prima di essere superate”. Tutta la nostra vita, dalla nascita alla morte, è un continuo vivere di emozioni associate al piacere o al dolore. Molte persone pensano solo alle emozioni come espressione dei sentimenti, ma non è così. Anche gli animali sono emotivi. Un esploratore che si era inoltrato in una foresta notò che tutti i suoi abitanti sostavano per mangiare, fuggivano un pericolo o copulavano per trasmettere la vita, ognuno secondo la propria specie. La nostra vita è un susseguirsi di stati emotivi per sfuggire al dolore della vita o al “non senso” dell’esistenza. Come dice la Bhagavad Gita anche la “non azione” è un’azione.
Nel racconto biblico dell’Eden viene detto che ogni cosa era buona a mangiarsi ma l’astuto serpente insinua che se Adamo ed Eva avessero mangiato dall’albero della conoscenza sarebbero diventati come Dio. Come dire che quello che tu possiedi già non basta, puoi avere di meglio, se segui il mio consiglio. Ogni riferimento al premio o al castigo, nelle varie religioni, vogliono dire che le emozioni “piacere-dolore” sono strettamente connesse allo scopo della vita. I bravi predicatori sono quelli che sanno fare vibrare più a fondo i tasti delle emozioni. Tutte le emozioni nascono e muoiono dentro la nostra anima. L’atto di volontà, della nostra personale identità, può, attraverso la conoscenza, andare al di là delle emozioni già registrate dentro la memoria della nostra mente. Su questo tema Krishnamurti ha scritto un bel libro, Libertà dal conosciuto.
Se abbiamo una cattiva abitudine, fumare, bere o sesso illecito, che vorremmo abbandonare e non ci riusciamo, vuol dire che la sua pratica – piacere o la sua astinenza – dolore hanno creato in noi una dipendenza emozionale. La cultura spirituale dell’India ha elaborato nei suoi darsana (le sei vie di realizzazione), diversi metodi per vincere la dipendenza emotiva in rapporto alla nostra tipologia: i tipi molto fisici (tamas) devono lavorare sul corpo, i romantici sentimentali (rajas) sulla sensibilità, i celebrali intellettuali (sattva) sulla mente e la comprensione.
Dice Buddha che viviamo gioiosamente placidi tra coloro che sono frenetici. Nella gioia riposa chi è placido dopo aver abbandonato vittoria e sconfitta. Con la “non rabbia” si conquista la rabbia, con il bene si conquista il male, con la generosità si conquista l’avarizia, con la verità colui che mente. Il desiderio più grande è non desiderare per avere, ma essere, come dicono i saggi. San Paolo scriveva: “Tutte le cose belle, buone, onorevoli, piene di virtù e di lode siano oggetto dei vostri pensieri“. (Ep. filippesi, 4)
Tra i moderni vorrei citare Albert Einstein “L’emozione più bella che possiamo provare è quella mistica. È la sua seminatrice di ogni arte e scienza. Colui al quale è estranea tale emozione è come se fosse morto. Sapere ciò che è impenetrabile esiste realmente […] Tale conoscenza, tale sentimento è al centro della vera religiosità. In questo senso, e solo in questo senso, faccio parte della schiera degli uomini devotamente religiosi”.
Max Plance: “Per me la ricerca di qualcosa di assoluto è lo scopo più nobile e più degno della scienza […] poiché tutto ciò che è relativo presuppone qualcosa di assoluto, ed ha un significato solo quando è confrontato con qualcosa di assoluto”.
Se volete approfondire queste tematiche leggete e studiate il libro di Bhagavan Das, La scienza delle emozioni (Ed. Anima) . Un’opera stupenda perché unisce la tradizione indiana con la psicologia occidentale, specialmente Freud, Jung e Adler. Essa porta il lettore verso la scienza della gioia dell’anima che “trascende l’amore e l’odio: la scienza del Sé infinito”. Voglio terminare con questo mio mantra: “Tutto quello che è accaduto sino a questo istante, che è già passato, è giusto e perfetto”..
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