Spegnere l’inferno e bruciare il paradiso – I

Il male è un argomento complesso nonché generalmente molto sentito; ci pone a diretto confronto con il tema della sofferenza nell’esperienza della vita. Chi non ha sentito dire o pensato nella propria esistenza, almeno una volta, “Perché Dio lo permette?”… Ecco la prima di due parti dedicate all’argomento.

La vita, intendendo con ciò la nostra esperienza terrena nella terza dimensione, è confinata in una prospettiva rigorosamente duale, dove ogni cosa esiste ed è necessariamente definita dall’esistenza del suo opposto; l’alto non ha senso se non esiste un basso, la luce non è comprensibile se non posta a confronto con le tenebre, come splendidamente descritto nella parabola della Candela e del Sole in Conversazioni con Dio. (1)

In tale prospettiva, il male è un fenomeno articolato e complesso; una quantità di diverse esperienze ci consegna l’apparente certezza della sua esistenza. S’inizia dall’oggettività della malattia fisica, percepita come alterazione del suo opposto, cioè lo stato di salute, per muovere alla sofferenza d’ordine emotivo o mentale che consegna sentimenti ed emozioni chiaramente vissuti come “negativi”. Si giunge quindi a fenomeni come la devianza psichica che, con altrettanta vividezza, paiono essere la negazione della stessa natura umana e, pertanto, palesemente negativi (nel senso che sono la negazione di quella natura, percepita come un valore positivo). Con un processo di oggettivazione, necessario alla visione dualistica ed al conseguente modo di procedere dell’intelletto umano, il “male” è anche giunto ad essere personificato nella figura del demonio.

Uno sguardo ai cinque sentimenti di base (Rabbia, Tristezza, Paura, Gioia e Vergogna) secondo l’insegnamento di Amana Virani (2), ci consegna subito la sensazione che solo uno, la gioia, è effettivamente gradevole, mentre gli altri sono facilmente definiti sgraditi o indesiderabili.

In una tale visione della realtà, rigorosamente suddivisa in bello e brutto, bene e male, luce e tenebre, siamo inesorabilmente condannati a fuggire tutto ciò che reputiamo negativo ed inseguire tutto ciò che, invece consideriamo positivo e desiderabile, in una corsa che si rivela tanto faticosa quanto inutile, giacché il male è sempre lì, pronto a farci visita.

Molti percorsi di crescita personale e di sviluppo della consapevolezza orientano le persone alla ricerca ed all’esaltazione del bello, del positivo, dell’amore, negando implicitamente il suo opposto; in tal modo finiscono per confermare e consolidare la visione dualistica. L’evidenza dell’impossibilità di ignorare l’altro estremo, l’indesiderabile che immancabilmente torna a manifestarsi, spinge infine verso una versione più sofisticata dello stesso intento, approdando al concetto di trasformazione, secondo il quale le energie negative possono essere, finalmente, trasformate in positive. Si tratta solo d’illusioni!

La realtà è composta di bene e male, così come di luce ed ombra; se si vuole vivere nella realtà, questo è ciò che È, non v’è modo di cambiarlo ed ogni tentativo in tal senso è destinato a fallire.

Eppure, esiste una possibile differente prospettiva della realtà. Chiunque, quando va dal panettiere o acquista il giornale e paga con una moneta, senza alcun dubbio “sa” che si tratta di una moneta, nemmeno ritiene possibile saldare il conto con una sola faccia della moneta stessa. Questo paradosso è solo apparente; in verità, è esattamente come stanno le cose. La domanda è dunque semplice: perché è così chiaro, quando si tratta delle due facce di una moneta, mentre è così difficile da comprendere ed accettare quando si tratta della realtà, delle due facce della vita?

Si narra che Rabi’a, un’eminente Sufi irachena, fu vista un giorno nel suo villaggio che correva con un secchio d’acqua in una mano ed una fiaccola nell’altra; quando le chiesero dove andasse e cosa facesse, rispose: “con il secchio voglio spegnere l’inferno, con la fiaccola bruciare il paradiso, questi due nulla che ci separano dall’assoluto”, intendendo con assoluto ovviamente Dio.

Jalal ‘uddin Rumi, un altro importante maestro Sufi (il fondatore dei Mevlevi o dervisci rotanti), tra altre innumerevoli opere, ha scritto un compendio di dialoghi tra maestro e discepoli, intriso di profondi insegnamenti. Il titolo dell’opera, erroneamente reso nella traduzione italiana (3) con “l’essenza del reale”, è “Fihi mâ fihi”, che si traduce con l’assai più pregnante “C’è quel che c’è”. Questo titolo riassume tutta la visione Sufi della realtà, secondo la quale “c’è quel che c’è” significa anche “qui c’è tutto”, con ciò intendendo che Dio fa bene le cose e ciò che ci ha dato è completo, perfetto così com’è. Non manca nulla affinché noi si possa capire; nostro il compito di accettare e comprendere.

Si tratta dell’opportunità di cogliere la perfezione dell’Unità attraverso ed oltre l’evidenza degli opposti.
Non è cosa nuova; l’idea compare ripetutamente nella filosofia, ad esempio nella sintesi hegeliana. Ancor prima e più profondamente, è presente in modo consistente in tutte le tradizioni mistiche. Il simbolo del Tao composto di Yin e Yang in perenne movimento e mutazione ne è una squisita sintesi, ma il medesimo concetto è costituente nell’albero sefirotico della tradizione ebraica ed è palese nella Trinità delle religioni Cristiane.

(Continua)

Note
(1) “Conversazioni con Dio – vol.1” di Neale Donald Walsh, ed. Sperling & Kupfer, pag. 39.
(2) Amana Virani, insegnante spirituale e Maestro di un lignaggio sciamanico di discendenza Maya.
(3) “L’essenza del reale” Jalal ‘uddin Rumi, ed. Libreria Editrice Psiche.

Parte successiva.

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