Il peccato: un concetto denso di contraddizioni

Il peccato: un concetto denso di contraddizioni

Oggi domandiamo a Massimo Picasso la sua opinione sul tema del peccato, da vari punti di vista: religioso, psicologico, storico-filosofico, laico…

“Il teologo non conformista, Vito Mancuso, a proposito dell’autobiografia di Eugenio Scalfari L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi), scrive che l’istinto morale ha un fondamento fisico, perché il fondamento dell’etica e del diritto è inscritto nella logica del nostro organismo: c’è una verità primordiale della nostra natura alla base di etica e diritto.”
(Giovanni Russo, Laici o credenti, elogio del dubbio)

– Da dove ci viene il concetto di peccato?

Sicuramente dall’Antico Testamento dove peccare consisteva nel trasgredire i comandamenti di Dio oppure non rendergli onore attraverso le proprie azioni. Un peccato poteva essere fatto sia consapevolmente sia inconsapevolmente. In entrambi i casi veniva , comunque, richiesto un sacrificio espiatorio. Per quanto riguarda la responsabilità, i “sacri testi” sostengono due tesi contraddittorie. Si va da una tesi che prevede una responsabilità individuale (databile attorno a sei secoli prima di Cristo) ad un’altra più antica, che “parla” di responsabilità collettiva. In questo caso, si pensava che il peccato di un singolo infettasse tutto un gruppo (famiglia, tribù o stato) i cui componenti diventavano, tutti, suscettibili di castigo. Tipico è il caso del Faraone che, all’epoca di Mosè, provocò la collera divina. Stiamo parlando di tredici secoli a. E. V.

– Cosa aveva combinato?

Mosè, mandato dal suo Dio, aveva intimato al faraone d’Egitto di liberare il popolo di Israele e di lasciarlo partire per la terra che gli avrebbe assegnato. Il Faraone si oppose con il risultato che Dio mandò sull’Egitto le famose dieci piaghe che vengono descritte con dovizia di particolari nell’Antico Testamento (parte riservata all’Esodo). Terribile la decima piaga: la morte cioè di tutti i primogeniti egiziani, compreso il primogenito del Faraone. Ci troviamo, come vedete, davanti a un “peccato” individuale che provoca responsabilità e punizioni collettive.

– Un altro esempio?

Certo. Dieci secoli prima di Cristo, Davide decide di fare un censimento riguardante il suo popolo ben sapendo di andare contro la volontà del suo gelosissimo Dio che, evidentemente, vuole tenere solo per sé i registri di chi deve vivere e di chi deve morire. Naturalmente Dio, collerico com’è, va su tutte le furie e, come al solito, dimostra il suo scarso senso di giustizia, non punendo solo Davide, ma accanendosi sul suo popolo che colpisce con una pestilenza che provoca settantamila vittime innocenti. Ennesimo caso di colpa individuale che viene punita come colpa collettiva.

– Ma non sono strade già percorse dal cosiddetto “peccato originale”?

Sì ed è una delle assurdità della dottrina della Chiesa di Roma. La religione cattolica si basa tutta sul presupposto del peccato originale, la colpa, cioè, di Adamo ed Eva che ricade sulle spalle della loro discendenza per l’eternità. Gesù, figlio di Dio, si incarna, quindi, su questa terra per assumersi il peccato dei nostri progenitori e riscattare così tutti gli uomini con il sacrificio della Croce. Ma c’è qualcosa in più: solo il battesimo ci libera dal peccato originale e ci apre a una nuova vita grazie all’infusione dello Spirito Divino. Come vedete, tutto nasce da una favoletta ridicola che dovrebbe far ridere anche i bambini delle elementari. Una favoletta che ci mostra un Dio collerico, vendicativo e, soprattutto, ingiusto.

– Ma, sempre seguendo quella che tu chiami una “favoletta”, in cosa consisteva questo benedetto “peccato originale”?

E’, chiaramente, il desiderio dell’uomo di diventare come Dio. Se leggi, comunque, con attenzione la Genesi, scoprirai che Dio, sempre così facile all’ira, se la prende con Adamo e con Eva che scaccia brutalmente dall’Eden. Ma che, pur schiumando di rabbia, non parla di colpe ereditarie. Secondo me, sarà Paolo di Tarso a mettere in relazione la solidarietà di tutti gli uomini in Adamo peccatore con la solidarietà di tutti gli uomini in Cristo Salvatore e Redentore attraverso il sacrificio della Croce.

– Ma non ho capito: era proprio necessario che Gesù subisse sputi, frustate e una morte così atroce perché il Padre facesse pace con gli uomini? Non si poteva trovare una soluzione meno cruenta e dolorosa?

Anzitutto, dovete inquadrare il tutto in una società dove il sacrificio si collocava nel cuore della religione del popolo di Israele. Lo scopo di un sacrificio era spesso quello di espiare i peccati e di ottenere (o di riconquistare) il favore di Dio. Uno dei libri del Levitico riporta il famoso esempio del capro espiatorio. Chi, cioè, (come animale , uomo o cosa inanimata) prende su di sé i peccati di altri, trasformatisi in materia carica di impurità, per annientarla e distruggerla definitivamente.

– Stai dicendo che Gesù ha “recitato” la parte del “capro espiatorio”?

Secondo Paolo di Tarso (visionario come pochi) mi sembra proprio di sì. Il dono che Gesù fa della sua vita viene interpretato da Paolo come la sintesi finale dei culti sacrificali. Gli uomini si sono, infatti, riconciliati finalmente con Dio per mezzo della morte sulla croce di Suo Figlio. Come, dunque, afferma Paolo: “Come per la colpa di un solo uomo (Adamo) si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di un solo uomo (il Cristo) si riverserà su tutti gli uomini la giustificazione che dà la vita”. E’ la meccanica assurda che abbiamo già esaminato.

– Assurda?

Ripeto: assurda. Dio, secondo Paolo, aveva castigato i discendenti di Adamo che, col peccato originale, non c’entravano assolutamente. Al colmo della follia, si riconcilia, però, successivamente, sempre con i discendenti di Adamo, che risultano questa volta colpevoli di avergli ammazzato il figlio unigenito. Cose fuori da ogni logica. Mi viene in mente quella famosa domanda di Denis Diderot che, davanti all’incomprensibile meccanica trinitaria, si chiedeva: “Chi è quel Dio che per placare Dio fa crocifiggere Dio?” E’ una domanda che dovrebbero porsi tutti i cosiddetti fedeli.

– Ma in quale misura Gesù ha dato adito a un’interpretazione così cruenta e disumana della sua missione su questa terra?

Secondo i quattro Vangeli in diversi punti, Gesù avrebbe affermato (in modo criptico) che è venuto su questa terra per dare la sua vita in riscatto dei “molti”. Il messaggio potrebbe essere interpretato così: i peccati degli uomini rappresentano un debito nei confronti della giustizia divina; per liberare gli uomini da questa schiavitù del peccato, Gesù pagherà il riscatto e cancellerà il debito versando, come prezzo, il suo sangue. Morirà, cioè, al posto dei colpevoli così come era stato annunciato del “servo di Jahvé “ di Isaia.

– Come “vede” tutto questo il Vangelo di Giovanni che approfondisce sempre in modo così intimo il mistero del Cristo?

Giovanni ci presenta Gesù come un Figlio che è sceso sulla terra per fare la volontà del Padre, che è quella di salvare gli uomini. Gesù ribadisce più volte il contenuto della sua missione e, dopo aver conosciuto la tristezza e l’angoscia nell’orto del Getsemani, va incontro alla morte in piena coscienza dimostrando tutto il suo amore per ciascuno di noi. In altre parole, Gesù si offre alla morte per compiere l’opera che glorificherà Dio dimostrando l’amore di Dio per il mondo e per l’umanità. Un quadretto idilliaco che, senz’altro, ha ben poco a che fare con l’orrore che ci provoca un padre che costringe suo figlio a farsi crocifiggere. Cose rozze, incivili e primitive.

– Ti vediamo molto polemico nei confronti del Padre…

Tutt’altro. Un Padre che fa immolare il Figlio è un Padre che è meglio dimenticare. Ci hanno insegnato che Dio ha fatto l’uomo “a sua immagine e somiglianza”. Ammesso che sia vero, spero di assomigliargli il meno possibile, soprattutto per quanto riguarda i miei figli. Le teorie arcaiche, così sanguinarie, mi hanno sempre suscitato un forte disgusto.

– Lasciamo da parte padri e figli e occupiamoci del peccato sotto il profilo laico. Cosa ne dice la Psicologia?

Mi portate su un campo che non è il mio. Comunque cercherò di rispondervi con quello che ho imparato frequentando qualche “esperto”. Ribadiamo, prima di tutto, che il termine “peccato” appartiene al linguaggio religioso e che trova, quindi, senso e significato nel contesto delle diverse concezioni religiose, rifacendosi, quasi sempre, all’inosservanza di un comandamento divino.

– Peccato, senso di colpa e rimorso: quali sono i legami?

Definirei il rimorso come una specie di disagio intimo connesso a un senso di colpa che deriva dall’inadempienza di norme di carattere morale. Cosa che fa apparire (al soggetto interessato) la propria condotta come riprovevole. Il rimorso è frequente negli stati depressivi e può portare a vere e proprie ossessioni o, addirittura, al suicidio.

– Ce l’hanno tutti?

Non tutti. La maggior parte dei criminali nazisti, impiccati a Norimberga nel 1946 per esempio, erano convinti che aver collaborato a far fuori sei milioni di ebrei fosse un’opera meritoria e si meravigliavano di dover stare sul banco degli imputati. E’ una reazione che, a quanto mi risulta, non è mai stata approfondita in maniera convincente soprattutto perché quasi tutti erano mariti e padri di famiglia dalla condotta irreprensibile.

– Davvero?

Davvero. Da quando ho letto con cura quasi tutti gli atti del processo (ci ho investito due anni del mio tempo libero) nessuno può venirmi a dire che le leggi morali sono scolpite nel cuore dell’uomo prima di essere scolpite sulla pietra. Questi mostri non erano in grado di distinguere il bene dal male. Se mi chiedi il perché non so rispondere.

– Ma ritorniamo a tempi più antichi. Quali sono, nella Bibbia, i sensi di colpa e i rimorsi più emblematici?

Senz’altro quelli di Adamo (non a caso si torna al peccato originale). Poi, quelli di Caino che uccise il fratello per gelosia. Un “posto d’onore” spetta a Giuda che, secondo me, si accusò probabilmente di colpe che non aveva commesso. Un caso da manuale, riferendoci sempre all’equazione “peccato – senso di colpa – rimorso” è quello di Saulo, o meglio di Paolo di Tarso, i cui rimorsi lo portarono verso orizzonti veramente imprevedibili.

– Possiamo parlarne? Chi era veramente questo “tredicesimo apostolo”?

Paolo era un ebreo nato a Tarso (attualmente in Turchia) da famiglia benestante che gli permise di studiare a Gerusalemme sotto la protezione del grande Gamaliele, insigne maestro che lo iniziò alle dottrine dei Farisei.  In un primo momento, Paolo fu un feroce persecutore della neonata comunità cristiana e prese parte attiva al linciaggio di Stefano, il primo martire cristiano, lapidato dopo un processo sommario. Poi, mentre viaggiava verso Damasco per reprimere brutalmente quella che riteneva una pericolosa eresia, fu convertito dall’apparizione che sappiamo che gli manifestò la verità della fede cristiana e gli affidò la speciale missione di apostolo fra i pagani.

– Di cosa si trattò?

Se volete posso darne solo un’interpretazione “terra-terra”...

– Provaci…

Paolo era, prima di tutto, un ebreo. Aveva perseguitato degli ebrei e, come abbiamo appena visto, aveva partecipato alla lapidazione di Stefano. Aveva, così, fatto scorrere sangue della sua razza e, nell’inconscio, non poteva che provare un pesante senso di colpa. Durante il suo viaggio a Damasco, Paolo cadde sotto il peso dei suoi rimorsi. Fu il punto di partenza per un  suo interminabile percorso di espiazione anche se lui lo interpretò in maniera diversa. In Paolo l’equazione “peccato – senso di colpa – rimorso – espiazione” mi è sempre sembrata chiarissima.

– Ne sei proprio convinto?

Per “punirsi” c’è gente che recita il rosario due volte al giorno, che sale a ginocchioni le interminabili scale di qualche chiesa, che si prende a frustate durante le processioni. Paolo, guardando le sue mani sporche di sangue fraterno, “scelse” di fare più di cinquemila chilometri a piedi per farsi perdonare il passato che lo ossessionava. E’ ben difficile stabilire se sia morto sentendosi finalmente la coscienza a posto. Credo di no.

– Concludiamo con un pizzico di ottimismo. Che ne pensi della recente affermazione del teologo non conformista Vito Mancuso, secondo cui “l’istinto morale ha un fondamento fisico, perché il fondamento dell’etica e del diritto è inscritto nella logica del nostro organismo”? C’è davvero, secondo te, “una verità primordiale della nostra natura alla base di etica e diritto”?

Non ho ancora letto il libro di Mancuso (L’uomo che non credeva in Dio, Einaudi, ndr.). La mia risposta può essere solo “superficiale”. Se mi fermo alla frase appena riportata potrei solo dire “Sarei felicissimo che avesse ragione”, ma poi, penso ad Auschwitz e mi viene da chiedere: con i campi di sterminio come la mettiamo? Forse sono io che non ho capito. Mi riprometto di approfondire..

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