Introduzione al raja yoga

Introduzione al raja yoga

Dall’irreale al reale, dal buio alla luce e dalla morte all’immortalità” – questa transizione, a cui aspira l’uomo, è resa possibile grazie al Raja Yoga, la più alta fra le scienze della coscienza.

Personalmente ritengo che il raja yoga rappresenti il vertice di quanto l’umanità abbia espresso nell’ambito della scienza della coscienza. In particolare gli Yogasutra di Patanjali hanno codificato, in modo assolutamente scientifico, tutto quanto occorre all’essere umano per compiere quella transizione che le Upanisad descrivono come ciò che ti fa passare ‘dall’irreale al reale, dal buio alla luce e dalla morte all’immortalità’.

Lo yoga in generale si occupa, attraverso le varie modalità con le quali si è espresso nel corso dei millenni, del problema della disarmonia e della disomogeneità della coscienza. La varietà delle sue pratiche è, in realtà, volta ad un unico obiettivo, quello di realizzare l’unità percettiva ed esperienziale dell’essere umano, cosa che è espressa anche nell’etimo stesso di yoga, che significa per l’appunto unione. In India, dove lo yoga è nato, è abbastanza chiaro che il raja yoga, rispetto agli altri tipi di yoga, è il più elevato, quello che include in sé anche gli effetti di tutte le altre possibili pratiche. D’altronde questa cosa è confermata dal suo stesso nome, visto che raja è ‘il re’, per cui raja yoga è lo yoga reale.

L’esposizione che Patanjali fa negli Yogasutra è estremamente scientifica e, mi si consenta, anche scarna, in quanto si limita ad esporre, in modo assolutamente sintetico, solo gli elementi essenziali che necessitano al compimento del percorso che il raja yoga descrive. Il primo dei quattro capitoli che compongono il libro, tratta del samadhi, ossia dello stato di unione della coscienza che la pratica yogica produce. Esso comincia con l’espressione del pranava, ossia la sacra sillaba Om, il Verbo attraverso il quale tutte le cose sono state create, la vibrazione che, secondo le scritture indiane, compendia tutte le frequenze di quanto esiste nell’universo. Poi il secondo sutra esprime subito quello che è il succo di tutto l’insegnamento del raja yoga: yoga citta vritti nirodha, ossia, tradotto liberamente, ‘lo yoga corrisponde all’arresto delle modificazioni mentali’.

Senza ombra di dubbio, questa è una delle frasi che ha creato maggiore confusione in coloro che si sono avvicinati alla pratica della meditazione, non tanto per la frase in sé, quanto per l’interpretazione che, molto di frequente è stata fatta di queste parole. Per cui un’infinità di praticanti ed aspiranti ‘meditatori’ hanno fatto innumerevoli tentativi per raggiungere una sorta di vuoto pneumatico all’interno della scatola cranica, con l’intento di realizzare questa condizione di ‘vuoto mentale’. Per fortuna è molto improbabile che qualcuno ci sia riuscito, altrimenti avrebbe corso il rischio di trasformarsi in un cetriolo. La condizione di cui ci parla il nostro Patanjali è casomai di ‘arresto delle modificazioni mentali‘, che io non interpreto come arresto del pensiero, quanto piuttosto come arresto della capacità del pensiero di distorcere l’attività percettiva del nostro essere. Questa non è una sofisticata distinzione filosofica, ma una questione essenziale per comprendere come funziona la nostra coscienza.

Tutta l’attività umana si basa sulla percezione, sia interiore che esteriore, che l’uomo ha di sé e della vita. Senza addentrarci troppo nell’analisi strutturale e vibrazionale di come funzioniamo, penso che sia abbastanza condivisibile il fatto che l’attività emotiva e mentale condiziona grandemente la capacità percettiva, al punto di distorcerla significativamente. La storia individuale di ognuno di noi è costellata di episodi nei quali semplici ‘lucciole’ sono state prese per ‘lanterne’, con tutte le conseguenze del caso. Non è quindi casuale che nella tradizione indiana la vita sia descritta come Maya, illusione, visto il fatto che la percezione umana raggiunge la capacità di restituirci la realtà così com’è, solo conseguendo quello stato definito come samadhi, rimanendo altrimenti ancorata alle distorsioni prodotte dagli infiniti ‘veli’ costituiti dalla nostra produzione di emozioni e di pensieri.

Il percorso che ci propone Patanjali è per l’appunto quello che ci consente di superare quelle condizioni interne alla nostra coscienza in grado di distorcere la nostra visione del mondo. Questo per metterci nelle condizioni di sperimentare il samadhi, lo stato nel quale la nostra percezione della vita è assolutamente aderente allo stato di fatto delle cose. Incidentalmente poi, visto che questa realtà non perturbata, corrisponde a quel modo dell’essere che i testi sacri indiani definiscono come sat, chit, ananda, essenza, consapevolezza e beatitudine infinite, possiamo affermare che, seguendo l’insegnamento dello yoga degli otto passi, l’essere umano può superare la sofferenza, determinata dalle modalità ordinarie ed illusorie della sua coscienza.

Compiere questo percorso, in realtà significa vivere consapevolmente un lungo e difficile cammino di alchimia interiore, in grado di farci comprendere il senso di tutta l’esperienza umana. Nella fattispecie il raja yoga fornisce, a chi è in grado di poterlo desiderare, tutta la strumentazione adeguata per compiere quest’ultimo passo all’interno del regno umano, quello che conduce all’illuminazione. Yama, niyama, asana, pranayama, pratyahara, i primi cinque passi sul sentiero dello yoga reale, riguardano quello che io considero l’aspetto propedeutico rispetto a ciò che anche Patanjali ritiene essere il cuore di tutta la pratica. Regole e proibizioni, giusta posizione nella vita, controllo delle energie vitali e distacco dai sensi, questi sono i primi cinque passi, richiederebbero ciascuno un trattato a parte, ma in questa sede ci basti sapere che, attraverso la comprensione di questi mezzi, si acquisiscono la stabilità e la purezza necessarie per potere realizzare con profitto la parte più significativa del raja yoga, quella riguardante la concentrazione, la meditazione e l’estasi.

Dharana, dhyana e samadhi, altrimenti chiamati samyama, la disciplina, costituiscono la chiave di volta di tutto il sistema. Non sono riconducibili semplicemente a delle specifiche pratiche, che pure possono esistere, quanto piuttosto si riferiscono alla possibilità della mente umana di entrare in rapporto stabile e non disturbato con l’essenza della vita stessa. Attraverso la concentrazione, dharana, appuntata sulla forma, il praticante di raja yoga sviluppa la capacità di meditare, dhyana, ossia comincia a percepire la qualità che sta al di là della forma. Questa percezione ‘extra-sensoriale’ inizia a far comprendere le vere strutture della vita e della coscienza, quelle che normalmente non sono percepite dall’attività sensoriale fisica. Così si sviluppano tutti quei siddhi, o poteri, di cui Patanjali ci parla nel terzo capitolo degli Yogasutra.

Quando questa capacità di ‘essere’ in meditazione nella vita diviene stabile, allora si sperimenta il samadhi, l’indifferenziato stato di non perturbazione, altrimenti chiamato estasi, illuminazione, nirvana, etc.

Ci tengo a precisare, proprio per esperienza vissuta, che è abbastanza normale farsi l’idea che, per realizzare le mirabolanti cose che il raja yoga ci propone, sia quantomeno necessario un lungo soggiorno in una caverna senza riscaldamento centralizzato su di un elevato ed isolato picco himalayano. Bé, devo dire che la vita mi ha costretto a smentire questa ipotesi, al punto di farmi divenire un accanito sostenitore della teoria dell’illuminazione nel salotto di casa, che eventualmente, come recitava un’antica pubblicità televisiva, la ‘potete prendere anche in tram’. La cosa veramente significativa, ai fini di questo tipo di conseguimento, è ‘come’ elabora i dati la nostra coscienza, ed in particolare che possibilità essa ha di essere più o meno aderente, dal punto di vista percettivo, alla realtà essenziale delle cose.

Se l’illusione è presente nella propria coscienza, questa lo sarà nel piccolo come nel grande, per cui ogni avvenimento del proprio esistere diviene assolutamente rilevante, ai fini della comprensione delle motivazioni del nostro agire. L’attenzione, dharana, (o concentrazione), agli impulsi che ci sospingono in azione, diviene la chiave di volta del sistema che Patanjali ci propone per comprendere la vita. Per capire il divario esistente tra l’idea che io ho di me stesso e ciò che veramente mi sospinge in azione devo per forza partire dall’attenzione al mio comportamento. Se voglio cambiare le componenti distruttive del mio essere devo prima divenirne consapevole, senza per forza dover pensare a supreme teologie.

Questa forma di attenzione agli atteggiamenti del proprio comportamento non è per nulla diffusa ed è in realtà la cosa più difficile da realizzare su questo pianeta. Lo sviluppo di questa forma di concentrazione, è ciò che consente di sviluppare il secondo stadio della disciplina, la meditazione, che è quella condizione che permette di percepire la ‘qualità’ delle cose. Volendo fare un esempio concreto, magari io soffro nella mia vita perché nessuna donna mi capisce e mi dà l’amore che mi meriterei. Portando attenzione al mio comportamento, scopro invece che, al di là delle affermazioni verbali, di cui sono convinto, il mio modo di fare comprende in sé una certa volontà inconscia di non darsi completamente all’altra persona, allontanandola invece di attrarla. La percezione di questa ‘qualità’ interiore, mi dà la possibilità di cercare di agire in modo diverso, esercitando maggiore presenza invece che repulsione.

Lo yoga poi conosce esattamente, a livello strutturale, come questo conflitto si esprime nell’anatomia e nella fisiologia occulta della coscienza, ma da un punto di vista pratico questa conoscenza viene più utile in un secondo momento.

Solo la pratica della comprensione di sé, con la realizzazione dell’innocuità del proprio comportamento, può condurre ogni essere umano al superamento della sofferenza, al compimento dello yoga e al conseguimento di quello stato di imperturbabilità chiamato, in questa occasione, ‘samadhi‘. Consentitemi di affermare, senza veramente nessun intento polemico, che questo conseguimento, che è il coronamento di tutta l’evoluzione umana, ed in particolare l’oggetto della disciplina di Patanjali, va ben al di là dell’esecuzione, come spesso si intende, di qualche complessa tecnica di concentrazione, ma ha a che fare con il cuore stesso della vita, che bisogna comprendere in tutta la sua interezza, prima di potere smettere di ferirlo.

Questa cosa la si può fare solamente vivendo, con attenzione, rispetto ed amore, la propria esistenza, tenendo presente che non è l’unica nell’universo, ma è tale proprio perché espressione dell’insieme di tutte le altre vite. È di questa unione, con se stessi e con tutto ciò che esiste, che si occupa lo yoga, anche e soprattutto il raja yoga. Pensa te che ho sentito tante volte tanta gente dire che non ha tempo per meditare…

Fonte: www. il discepolo.it.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Lascia un commento con Facebook

Torna in alto