La difficile capacità di stare soli

La difficile capacità di stare soli

La capacità di stare soli non va confusa con l’accettazione passiva della solitudine, ma riguarda la nostra capacità di relazionarci con noi stessi e con gli altri…

 

“Nessun uomo è un’isola,
completo in se stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto…”
(da Nessun uomo è un’isola di John Donne).

Siamo abituati a dare una connotazione esclusivamente negativa all’essere soli: pensiamo immediatamente, quasi in modo automatico, alla solitudine, a una condizione triste che ci ha sopraffatti. Ci ritroviamo in questo stato penoso senza la nostra volontà, senza esserne stati parte attiva, e pensieri di abbandono, a volte anche di fine, rendono estremamente difficile reagire a questa condizione.

La capacità di essere soli si riferisce ad una modalità più attiva di vivere la solitudine: una condizione positiva e piacevole, a volte anche ricercata, nella quale è pienamente presente la nostra capacità di incidere e di essere nel mondo con la nostra individualità e creatività. In questa capacità ci differenziamo per il grado e il tempo in cui l’abbiamo acquisita.

Siamo soliti sentir dire che la capacità di godere della solitudine sia una conseguenza dello star bene con se stessi, come se lo star bene con se stessi sia qualcosa che possiamo acquisire magicamente e per di più da soli, con l’ausilio dell’autosuggestione o magari esercitandoci, così come un tempo abbiamo fatto per apprendere la matematica o un’abilità sportiva. Il presupposto, per chi la pensa così, è che dobbiamo convincere noi stessi di essere perfetti e quindi eliminare le nostre incertezze o i nostri falsi costrutti. Dunque dobbiamo bastare a noi stessi! In realtà, le cose non stanno proprio così: nessuno di noi è perfetto e lo sappiamo.

La difficile capacità di star soli e di godere della solitudine si forma nel primo periodo di vita, in compagnia di qualcuno che è in una speciale sintonia “con noi”; così come, per alcuni adulti può diventare una conquista, attraverso l’esperienza di una relazione altrettanto speciale.

Spesso, nel mio lavoro di psicoterapeuta, mi sono trovata di fronte a persone che pur nella loro unicità, originalità e differenza, mi hanno presentato, sotto svariate forme, la stessa incapacità di star soli. Questa difficoltà, che emerge con il lavoro analitico e che a volte si palesa chiaramente in seduta con il disagio di vivere il silenzio con il proprio psicoterapeuta, è quasi sempre la responsabile di scelte sbagliate, di vite non vissute e imbrigliate nella coazione di comportamenti errati e improduttivi.

La difficoltà di stare soli è il termometro della nostra “maturità affettiva” e tanto ha a che vedere con tutte le nostre relazioni: se non siamo capaci di vivere serenamente e fruttuosamente il nostro star soli, anche il più saldo dei legami, prima o poi, sarà minacciato e ne subirà conseguenze negative. Se tanto ci preme la nostra vita sentimentale e lavorativa, invece di ricorrere a facili ricette, dovremmo capire il perché fuggiamo, o viviamo tanto male, quella condizione ideale per ritrovare noi stessi.

Ciò che occorre è la consapevolezza del perché fuggiamo in continuazione nell’impossibilità di fermarci a riflettere, del perché passiamo da una relazione ad un’altra senza soluzione di continuità, del perché mettiamo in moto tensioni di coppia pressando e interpretando i silenzi del partner, del perché non sappiamo ritrovare piacevolmente noi stessi e la nostra separatezza dopo esserci fusi con il nostro partner.

Dobbiamo chiederci come mai i nostri figli adolescenti siano oggi così vulnerabili all’alcool e alle droghe, come mai provano quel senso di vuoto e quella noia che li porta a distruggersi, come mai crescere tra scuola, doposcuola, ripetizioni, nuoto, palestra, diete, danza, scherma, piscina, karate e chi più ne ha più ne metta, non dà loro quella disciplina e quella forza per resistere.

Dobbiamo chiederci perché quando hanno potuto fermarsi, hanno dovuto cercare altri stimoli; perché gli stessi ragazzi, avvezzi a cose da grandi quando sono fuori casa, di notte non riescono a dormire nel proprio letto ma vanno nel lettone a dormire con mamma che con molte probabilità è separata da papà; come mai il proseguimento di quelle giornate nelle quali sono cresciuti, scandite di soli impegni frenetici fino a cena, ha generato certi comportamenti e l’incapacità di abbandonarsi al sonno da soli.

Direi che su questi importanti temi ci sia molto da discutere con umiltà, autocritica e desiderio di conoscere la realtà che ci circonda.

Come ha scritto Winniccott “la forma più raffinata della capacità di godere della solitudine si forma nel primo periodo di vita” e consegue all’esperienza della “consapevolezza della continuità dell’esistenza di una madre attendibile” ovvero alla costruzione della fiducia nell’esistenza di un ambiente benigno nella propria realtà psichica. Se questa esperienza non è stata corretta e sufficiente, probabilmente ci troveremo ad affrontare le difficoltà su esposte ed a far parte di quella grande popolazione di persone che soffre al solo pensiero di rimanere sola per un po’.

Ma non c’è da disperarsi e da continuare a star male perché, anche in età adulta, se siamo supportati da una buona motivazione, se davvero vogliamo essere più consapevoli di noi stessi, delle nostre difficoltà e dei nostri comportamenti, è possibile migliorare e cambiare. La capacità di star soli si acquisisce in presenza di qualcun altro, così come un tempo avrebbe dovuto accadere con un buon ambiente di sostegno, quindi è dalla relazione stessa che gradualmente ci si arriva, ma deve essere una relazione particolare, una relazione di fiducia, magari quella che si crea nello studio con il nostro psicoterapeuta o con una persona o un ambiente speciali.

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