Egoismo ed egocentrismo a prima vista si assomigliano eppure sono profondamente diversi. A differenza dell’egocentrismo, l’egoismo – ossai il prendersi cura di sé – può essere l’unica vera strada per l’amore, perché non possiamo offrire agli altri quello che non abbiamo.
Se dipende da me, allora la persona più importante della mia vita sono io. L’obiezione più immediata è: questo è egoismo. Vero, però bisogna intendersi sul suo significato. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un problema linguistico, perché egoismo ed egocentrismo sono spesso usati come sinonimi e invece non è così.
Egoismo è amare se stessi.
Egocentrismo è amare solo se stessi.
“Io sono la persona più importante della mia vita”: egoismo.
“Io sono la persona più importante della vita”: egocentrismo.
Per come la vedo io, l’egoismo è una virtù, l’egocentrismo è un vizio. Cercherò di spiegare perché.
Pur con tutte le migliori intenzioni, noi possiamo dare agli altri solo quello che abbiamo. Perciò, se non abbiamo amore per noi stessi, agli altri possiamo dare solo surrogati dell’amore: tutto, ma non amore. Si comincia così con l’intravedere che amare se stessi è l’unico modo possibile per amare gli altri.
Il nostro cuore è come un conto in banca. Quei fortunati fra di voi che ne possiedono uno sanno benissimo che cosa succede se volutamente e contro ogni logica si mettono a prelevare sempre senza depositare mai: prima o poi il conto andrà a zero. Ma, dato che nel momento in cui rinunciamo alla libertà entriamo in un automatismo privo di controllo, continueremo a fare la stessa cosa e il conto finirà fatalmente (il destino?) in rosso. Questo è quello che ci succede quando prendiamo la “virtuosa” decisione di mettere gli altri sempre prima di noi.
Uscendo dalla metafora bancaria, il conto a zero significa che non possiamo aiutare più nessuno. Il conto in rosso significa che dobbiamo essere aiutati dagli altri. Dunque è evidente che questo nobilissimo atteggiamento non solo non funziona, ma ci porta addirittura ad un risultato opposto a quello che ci eravamo proposto in partenza.
In modo più poetico, possiamo considerare il nostro cuore anche come un giardino: se io non ne ho cura, il mio giardino andrà in rovina e quando lo vorrò offrire ad una persona che amo non potrò che offrirle un giardino rovinato, perché noi possiamo dare solo quello che abbiamo. Se io ho cura del mio giardino, ma entra qualcuno che lo calpesta, il mio giardino andrà in rovina e di nuovo io potrò offrire solo un giardino rovinato.
Amare qualcosa o qualcuno significa anche prendersene cura. Perciò se qualcuno calpesta il mio giardino io gli dirò, con dolcezza e con fermezza: “Tu stai fuori dal mio giardino. Nel mondo ci sono miliardi di giardini… scegline un altro perché, se me lo rovini, io potrò offrire a chi amo solo un giardino rovinato”.
Se questo atteggiamento può crearvi dubbi e perplessità, mi permetto di appellarmi al più grande Maestro d’Amore del mondo occidentale: Gesù Cristo. Cristo non solo interviene per scacciare i mercanti che avevano invaso, calpestato e profanato il Tempio (che è il Sacro Cuore, Giardino di Dio), ma lo fa anche con estrema fermezza(1). Non domanda loro gentilmente ed “educatamente” di andarsene: li butta fuori con forza!
A proposito di “educatamente” mi viene in mente la storia dei porcospini (Schopenhauer).
C’era una volta un inverno molto freddo e dei porcospini che dividevano una tana. Per aiutarsi a proteggersi dal gelo si avvicinarono molto gli uni agli altri. Così facendo riuscirono a scaldarsi molto, ma si pungevano anche molto. Allora si allontanarono, con il risultato di evitare di pungersi senza però riuscire più a scaldarsi. Poi fecero una lunga serie di tentativi finchè non trovarono una distanza che permetteva loro di scaldarsi abbastanza senza pungersi troppo. Da quel momento quella distanza fu chiamata “buona educazione”.
Qui è necessario fare una distinzione. Il comportamento di Cristo nei confronti dei mercanti attiene al concetto assoluto del nostro rapporto con gli altri, il comportamento dei porcospini al concetto relativo. Grazie alla nostra divina duplicità noi viviamo e agiamo contemporaneamente sia nella dimensione assoluta (Sé profondo), sia in quella relativa (Ego).
La cosa importante è non confondere e mescolare i due livelli.
Cristo ci insegna il modo corretto di comportarci nell’ambito assoluto della nostra essenza, che è anche il campo del nostro privato.
I porcospini ci danno la soluzione per interpretare la dimensione relativa dei rapporti sociali e pubblici, da cui scaturisce quell’insieme di leggi che consentono il funzionamento e la sopravvivenza di una comunità civile.
L’insieme di queste leggi costituisce quella che noi definiamo la “morale” e che erroneamente spesso confondiamo con "l’Etica".
La morale, come ben sappiamo, è continuamente soggetta a cambiamenti di ordine politico e funzionale legati al mutare delle necessità del Potere dominante in un determinato periodo storico; l’Etica è eterna. Ne consegue che è impossibile applicare l’Etica eterna al contesto relativo del sociale, perché le società civili non funzionerebbero. Allo stesso modo, è deleterio applicare la moralità contemporanea all’ambito del nostro privato, perché diventeremmo vittime consenzienti di chi ci fa del male. Ogni cosa al suo posto!
Tornando a chi calpesta il nostro giardino, ci sono tre tipi di persone. Quelle che ci fanno del male perché lo vogliono e qui è semplice; la cosa diventa più complessa con le persone che ci fanno del male senza rendersene conto e diventa tragica con quelle che ci fanno del male credendo di fare il nostro bene.
Ma se noi a queste persone non diciamo: “Fermatevi perché ci state facendo del male”, di chi è la responsabilità se continuano a farcelo? Evidentemente nostra: dipende da noi.
A proposito di chi ci fa del male senza rendersene conto e di chi agisce così credendo di fare il nostro bene, bisogna stare molto attenti ad un piccolo ma basilare dettaglio. Mi riferisco al problema dei ruoli, che sono una delle trappole più subdole e pericolose dell’Ego.
Se un essere umano perde la sua identità e si trasforma in un personaggio diventa un ruolo e il ruolo innesca un legame doppio che appunto lega una persona all’altra: due persone così legate non sono libere.
Anche il rapporto noi-gli altri sottostà alla legge della risonanza. Il noto detto “chi si somiglia si piglia” è più profondo e complesso di quello che può sembrare. Infatti noi attiriamo (e siamo attirati) non solo le persone che hanno qualcosa in comune con noi, ma anche quelle di cui abbiamo bisogno in positivo per evolvere, in negativo per confermare i nostri ruoli.
Il positivo ha a che fare con la dinamica costruttiva del complementare e va bene per definizione.
Il negativo invece non va: confermare i nostri ruoli vuol dire distruggere noi stessi. Perché o esiste il mio immaginario ruolo o esisto io (2).
Per chiarire il funzionamento della risonanza nei rapporti interpersonali basta pensare a un diapason. Io sono un diapason della nota sol e ho di fronte a me i diapason delle sette note. Se inizio a vibrare, ad emettere la mia frequenza specifica, secondo voi quale degli altri sette si metterà a vibrare, a entrare in risonanza con me, a riconoscermi e a rispondermi? Evidentemente il sol. E sarà sempre così finché io sarò o crederò di essere un sol.
Per ottenere la risposta del si, avrò un’unica possibilità: diventare un si. Solo allora, quando emetterò la mia frequenza di comunicazione, mi risponderà non più il sol, ma il sì. La conoscenza di questo semplice meccanismo ci dà la chiave per risolvere faccende spesso dolorose se non addirittura tragiche.
Avete mai sentito una ragazza, più o meno giovane, imprecare contro la sfortuna cosmica o il destino infame perché “è mai possibile che tutti i delinquenti me li becco io?” Sì, è possibile. No, anzi, è certo! Perché se un essere ha assunto il ruolo di vittima chi si andrà a scegliere per mantenerlo in vita? Un carnefice. Scegliere: il destino come scelta(3)? Sì.
All’estremo: vuoi incontrare il Principe Azzurro e unirti a lui? Diventa agli occhi di te stessa una Principessa e, prima di pretendere che lo facciano gli altri, comincia tu a trattare te stessa da Principessa. Questa è la parte che spetta a te: il resto lo farà la risonanza. La vita va vissuta con abbandono attivo.
Naturalmente questo vale anche per i signori maschi e riguarda tutti i tipi di rapporto basati sui ruoli.
Molti disastri nei rapporti di coppia nascono dal fatto che spesso i maschi o restano prigionieri nel ruolo mentale di figli o passano direttamente al ruolo mentale di padri saltando a piè pari lo stato di uomini, così come fanno le femmine nei confronti dello stato di donne: e qui nascono i problemi. Infatti, che tipo di femmina può desiderare un maschio-figlio? Una madre, perché questo è il complementare che garantisce il suo ruolo. E di chi andrà in cerca un maschio-padre? Per lo stesso motivo, di una figlia.
Salvo, dopo un po’, “innervosirsi” e sentirsi a disagio perché, insomma, “mi trovo di nuovo tra i piedi una madre che mi gestisce la vita”, oppure “mia moglie è una bambina che devo costantemente gestire”. Gli si potrebbe far notare che è stato precisamente lui a compiere questa libera scelta: “hai voluto la bicicletta? Adesso pedala!”. Ma non funzionerebbe: troppo semplice.
Lui dirà che il punto, come sempre, è un altro: “L’errore non sta in me, è colpa sua se le cose non vanno, perché un uomo ha bisogno di avere di fianco una donna!” Così deciderà di cambiare partner (separazioni, divorzi, famiglie distrutte). Ma non ce la farà perché, se non uscirà da quei ruoli, la perfetta legge della risonanza lo incatenerà sempre alle stesse “scelte obbligate”.
In casi come questi, purtroppo, l’esperienza non insegna nulla: il fatto di aver già sperimentato il fallimento del rapporto sia con una madre, sia con una figlia, non gli permetterà di spezzare il circolo vizioso: farà semplicemente il pendolo fra l’una e l’altra, restando prigioniero di se stesso.
Prigioniero: perciò non libero.
Peccato che la Libertà sia il fondamento della Vita e dell’Amore. Solo dopo aver conquistato il libero stato di uomo potrà entrare in sintonia con un essere femminile che liberamente vive lo stato di donna e avviarsi finalmente verso la possibilità di una serena e duratura vita matrimoniale.
Il matrimonio è, o dovrebbe essere, uno dei momenti più alti del rapporto di noi con noi stessi e di noi con gli altri.
Se è vero che agli altri possiamo dare solo quello che abbiamo, come facciamo ad offrire a qualcuno Amore, Rispetto e Unione se non li abbiamo già dentro di noi e per noi?
Forse, prima di unirci in sposalizio con un altro, recitando l’impegnativa promessa che ci viene richiesta, potrebbe essere buona cosa celebrare le sacre e religiose nozze con noi stessi, proclamando: “Promettiamo di amarci, sostenerci, rispettarci, nella buona e nella cattiva sorte, finché Vita non ci unisca”.
Per riassumere. Io mi identifico nel ruolo di vittima: chi sono? Una vittima. Di chi ha bisogno una vittima per poter esistere? Ovviamente di un carnefice che garantisca e renda reale il suo auto immaginato ruolo di vittima.
Senza carnefice la vittima può esistere? No! Se non c’è il carnefice la vittima sparisce, cioè muore.
Se io non sono me stesso ma sono un ruolo, nel momento in cui il ruolo sparisce e muore, io sono morto. Dunque il doppio legame vittima-carnefice garantisce la sopravvivenza di tutti e due(4).
Un legame simile presuppone l’assenza della libertà. La mancanza di libertà ci impedisce di viverci ed evolverci: allora quand’è che i due crescono? Mai.
Qual è la soluzione? È la risposta a questa domanda: in un rapporto vittima-carnefice, alla fine, chi è il vero responsabile se il rapporto continua? La vittima. Se la vittima decide di sparire, sparisce anche il carnefice: decidere è una scelta.
Se tutto questo è vero, allora dobbiamo ammettere che le persone ci trattano esattamente come noi permettiamo che ci trattino: più profondamente, come noi vogliamo che ci trattino.
Alla fine sembra proprio che l’egoismo, cioè amarsi e prendersi cura di se stessi, sia l’unica strada possibile per il vero altruismo: offrire agli altri le nostre bellezze e non i nostri disastri. Proporre agli altri i nostri disastri non è offerta d’amore: è richiesta di amore. Che va benissimo, però è un’altra cosa.
Tutto questo non l’ho pensato io. Ho solo tradotto in termini espliciti il comandamento più noto di Gesù, che è “Ama il prossimo tuo come te stesso”. In questa piccola frase sono contenute due grandi indicazioni nella via verso la Vita.
La prima è palese: ama te stesso.
La seconda va cercata. Lui ha detto “Ama il prossimo tuo come te stesso” – ha detto "come", non "di più". Dato che era un Uomo che parlava chiaro, se avesse voluto dire “di più”, l’avrebbe detto.
Per l’egocentrico gli altri stanno sempre dietro.
Per l’altruista, sia in buona sia in cattiva fede(5), stanno sempre davanti.
Per l’egoista dell’Amore non stanno né davanti né dietro: stanno semplicemente di fianco.
Note
(1) S. Vangelo, Matteo 21,12-17.
(2) Io non sono un personaggio: sono una persona. Io non sono un medico: sono un uomo che fa, o cerca di fare, il medico.
(3) Thorwald Dethlefsen. Il destino come scelta. Mediterranee Ed.
(4) Sindrome di Stoccolma.
(5) Occuparsi degli altri può essere un “nobile” alibi per fuggire da se stessi: chi fugge è un vigliacco.
Tratto dal libro E se Fosse Così? di Marco Clementi, Anima Edizioni.
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