Il basket come terapia

Il basket come terapia

Marco Calamai racconta la sua esperienza di allenatore di basket e come ha dato inizio a un metodo che oggi, attraverso 25 centri, aiuta in Italia 750 ragazzi con difficoltà psichiche e/o di comportamento…

Il 28 febbraio di dieci anni fa, quando non c’era (sfortunatamente) Oscar Pistorius ad attirare l’attenzione dei media su certe problematiche che ora fanno discutere, giorno dopo giorno sempre di più, sulle colonne di Sportweek, Luca Corsolini raccontava la storia di Marco Calamai, ex giocatore di basket, ex allenatore, ex insegnante, laureato in filosofia che “s’è sempre tenuto in allenamento ragionando e pensando di non aver perso niente di quello che ho studiato”.

La sua palestra – continuava quel racconto – era una vecchia stalla di 4 metri per 8, con un canestro solo e sbilenco, le colonne in mezzo al campo e alcuni abbeveratoi laddove di solito c’è la linea laterale. Non è in parquet questo strano campo fedele allo spirito del gioco; al contrario ci sono dei mattoni irregolari che non danno fastidio ai giocatori che stanno su panchine da mungitori, o dietro vecchi banchi di scuola. Il nuovo James Naismith si chiama Marco Calamai.

Dopo aver iniziato una nuova carriera tra abbeveratoi e colonne, la voglia di tornare in panchina, di portare a spasso di nuovo in serie A i suoi baffi e la sua sciarpa, il suo amore per il basket, gli è passata. Ha capito di essere diventato, forse definitivamente, un ex allenatore nel senso tradizionale del termine quando s’è accorto “di non sopportare più il disimpegno, la svogliatezza, la pigrizia di chi in palestra ci va per un gioco diventato lavoro”.

Marco Calamai ora (da allora, ndr) allena un gruppo di portatori d’handicap. Il basket come terapia: possibile?
“Ho scelto il basket perché e sempre stato il mio sport, ma anche perché e l’unica disciplina adattabile a questi ragazzi. Il gioco ha una sua violenza, però la fase finale, il tiro, è morbida. Poi è l’unico sport che tende al cielo, e questa è una rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre per terra: alzano la testa ed è come se scoprissero un mondo nuovo. Sinceramente, non pensavo che avrei retto: invece li sgrido, li alleno, siamo una squadra come tante altre”.

Marco Calamai, insomma, dopo 12 anni sulle panchine della serie A, aveva cambiato strada, lasciandosi alle spalle l’ultima esperienza professionistica di Livorno. E ancora adesso, da quell’agosto del 1995 quando incontrò per la prima volta i ragazzi del Centro di terapia intensiva La Lucciola diretto da Emma Lamacchia, continua a lavorare con loro. A portare avanti una missione, come la chiameremmo noi. Diciassette ragazzi, tutti con difficoltà psichiche e/o di comportamento importanti, erano pronti a entrare in contatto con la palla. “Certamente ognuno a suo modo – come Calamai sottolinea quasi con tenerezza –: c’era chi scalpitava per prenderla; chi si proteggeva con le mani il volto per paura di un passaggio inatteso; chi guardava il pallone di sottecchi sperando di non farsene accorgere ma interessato come gli altri”. Il primo allenamento, quello, a cui ne seguiranno decine, centinaia. D’estate a Monzuno (Bologna), sede estiva della Lucciola, nelle altre stagioni in quella stalla a Stuffione di Ravarino, in provincia di Modena.

E dopo i ragazzi della Lucciola, ecco quelli di Bologna, e poi ancora quelli di Pavia. Palestra e basket, giocando e correndo (in squadre composte da disabili e normodotati) magari anche a piedi nudi: nel mondo del “progetto Calamai” non c’è bisogno di un paio di scarpe all’ultima moda. E in “allenamento” un canestro lo si può segnare con un aiutino: con l’allenatore che ti solleva e ti porta quasi in cielo. O sulle spalle di un compagno. O con l’apporto di una sedia. Tanto nessun arbitrò fischierà mai. Nessun arbitro annullerà mai un gesto d’amore e il successivo cinque alto che vale più di una coppa dei Campioni. “Perché – dice ancora Marco – il semplice gesto del tiro, in molti ragazzi disabili, comporta l’aprirsi di una postura spesso chiusa; così come il passaggio a un altro componente del gruppo è l’inizio di un cammino di relazione e il primo passo verso una forma di dialogo”.

E Calamai lo ha scoperto giorno dopo giorno. Come in quell’intenso giovedì che stava ormai finendo con l’allenamento: “I bambini – scrive – stavano per salire sul pulmino in attesa. Sofia era già avvolta nel suo cappotto. Mi sono avvicinato per un saluto. Guardandoni mi ha sorriso e con naturalezza mi ha detto: ‘Ciao’. Era la prima volta che mi parlava, anzi la prima volta che parlava”.

Nella pallacanestro sperimentale adattata alla disabilità di Marco Calamai, situazioni così intense non sono però rare. Ma il gioco ha saputo riaccendere speranze, creare integrazioni, raggiungere risultati insperati. Per insegnare questo basket (che qui viene spiegato con una ricca casistica tratta dall’esperienza, testimonianze e numerosi esercizi pratici), “è necessario saper cogliere il valore dell’ascolto e dell’attesa, del silenzio e dell’integrazione reale; considerare la diversità non un limite, ma un arricchimento e una occasione di crescita interiore; saper intravedere le potenzialità che uno strumento magico come la palla possiede, per avviare dialoghi, intessere relazioni e guardare, finalmente, verso l’alto”. Appunto.

Fonte: Massimo Ciuchi per www.gazzetta.it

Scheda di Marco Calami su Wikipedia

http://youtu.be/kaWOcu0u1ig.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Lascia un commento con Facebook

Torna in alto