Intervento di Vincenzo Tallarico a “Dialoghi sulla Coscienza” (10-11-12 aprile 2015, Villa Bertelli – Forte dei Marmi)
Tra gli argomenti:
Quando si parla di benessere, di meditazione, di alimentazione ecc. non di rado, sotto sotto, c’è un evitamento dell’angoscia di morte.
Ovunque ci sia “tribù”, c’è gerarchia. Ne troveremo sempre; il mondo del buddhismo o della psicoanalisi non sono esclusi. Allora sta all’individuo chiedersi se la sua adesione a una istituzione è di tipo consolatorio o se frutto di una ricerca.
Nella terza parte della vita, dove sta il piacere? Possiamo davvero comportarci come adolescenti, appresso a piaceri superficiali ed edonistici?
Se incontri il Buddha uccidilo, perché il vero maestro non è fuori. Se il tuo gatto diabetico ti impedisce di vivere nel mondo, uccidilo. Queste, ovviamente, sono metafore, che invitano a liberarsi dalle nevrosi.
Occorre rendere conscio l’inconscio, ossia diventare consapevoli.
Quando siamo nel conflitto, come mettere insieme due situazioni polari e opposte? Mettere insieme i conflitti è più di una mediazione fra le due parti, è una terza via, una via altra, mediana.
Parlando del buddhismo, bisogna servirsene per se stessi, non per annullare le proprie radici o ciò che si è. A cosa, dunque, può servirci il buddhismo?
Cos’è la crisi? È trasformazione, perché quello che c’era prima non funziona più.
C’è una grande differenza tra l’adepto e il ricercatore. L’adepto cerca consolazione, il ricercatore non desidera essere salvato, pur sapendo che questo potrebbe allontanarlo da un pensiero collettivo, ma vuole saperne di più.
Nella “promessa” dell’aldilà, troviamo la metafora della consolazione. Di cui non possiamo dire nulla, di fatto, poiché nessuno è mai tornato dalla morte.
Cosa ci facciamo con l’idea della morte ora, qui in vita? Coloro che sanno che stanno morendo, troveranno davvero soddisfazione nelle nostre metafore di consolazione?
Prima tappa del buddhismo: diventare come un gatto. Il gatto sdraiato al sole è esente da sensi di colpa, conflitti o desideri che li turbano. È pienamente rilassato e nel presente.
Da una parte l’idea della morte non ci deve fermare, e dall’altra non dobbiamo ignorarla.
In genere pensiamo di essere immortali, sennò non perderemmo tempo ed energia a comprare inutili oggetti di consumo.
L’evoluzione è possibile solo nella costante consapevolezza dell’impermanenza e della morte. Cosa che si può fare con il gioco, con la leggerezza dell’accoglienza.
Tutti noi moriremo. È una semplice constatazione. Noi siamo un qualcosa che finirà e non possiamo farci niente.
Quanto più il discorso della nostra morte diventa centrale, più cambia la nostra posizione nei confronti dell’esistenza.
Non tutte le fiabe finiscono bene. Quando la fiaba finisce male dà due insegnamenti: quello che non deve fare, e che può finire male non solo per me ma per chiunque altro.
Tendiamo ad accumulare cose e oggetti per rifuggire dall’angoscia di morte. Visto che si muore, ma non sappiamo quando, più siamo leggeri, nella mente e nelle cose, e meglio è.
L’inizio è capire quanto danno ci fa la rimozione dell’angoscia e della paura della morte. Questo rende la nostra vita piatta, scontata, con meno colori.
L’insegnamento del Buddha inizia con la presa di coscienza dell’impermanenza, coscienza che ci porta a essere più vivi.
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