Come ci spiega Michele Micheletti, ogni atto comunicativo non trasmette soltanto una componente puramente informativa, ma stimola al tempo stesso anche un comportamento. Tale comportamento è legato al tipo di relazione che, consciamente o inconsciamente, stabiliamo con il nostro interlocutore… Articolo di Michele Micheletti, dal libro Comunicazione Evolutiva (Anima Edizioni)
Siamo meccanici. Lo siamo nella nostra ritualità quotidiana, nelle nostre scelte alimentari, nei gusti musicali e – purtroppo – anche negli schemi relazionali. Lo facciamo perché il nostro cervello è programmato per risparmiare energia e quindi preferisce adottare degli schemi comportamentali che gli evitano, per quanto possibile, di dover processare quantità infinite di dati provenienti dagli stimoli sensoriali esterni. Siamo meccanici perché la nostra mente preferisce gestire la realtà utilizzando scorciatoie di programma che possano garantirle una certa velocità di esecuzione. Questo accade perché in natura un sistema completamente “automatizzato” ed efficiente è garanzia di sopravvivenza. Comprendiamo bene che quando questo modello viene esportato nel campo della comunicazione il rischio del fallimento aumenta e l’intesa profonda e armonica tra le parti diventa più problematica.
Vi racconto una delle nostre ultime esperienze in ambito di mediazione relazionale. Abbiamo appena terminato un importante intervento di coaching evolutivo con un gruppo di lavoro vasto e variegato per competenze, mansioni e qualità individuali. Generalmente, quando veniamo chiamati per prestare la nostra attività in contesti di questo tipo, accade con lo scopo di migliorare le modalità comunicative dei componenti del team. Nella vita sociale della squadra di lavoro, infatti, possono instaurarsi delle “ritualità” nell’interrelazione che portano a stati di disagio, anche molto pesanti, per una parte o per la totalità del work-team. Nelson e Winter, docenti di Yale ed esperti di strategia aziendale e teoria delle strutture organizzative, hanno descritto questi schemi in modo esemplare:
Gran parte del comportamento di un’azienda è da interpretarsi come il riflesso di abitudini generali e di orientamenti strategici provenienti dal passato dell’azienda, piuttosto che come il risultato di un esame dettagliato dei rami periferici dell’albero decisionale. (Charles Duhigg, Il potere delle abitudini. Come si formano, quanto ci condizionano, come cambiarle, Tea, Milano 2014).
Le routine aziendali sono indispensabili per il funzionamento delle organizzazioni fino a quando non sottendono schemi di conflitto interno. Queste dinamiche sono difficili da risolvere in modo autonomo e generano dimensioni di profondo malessere nei componenti del gruppo. Esse possono sfociare in significative difficoltà lavorative – talora anche di vita –, in motivi concreti di improduttività o addirittura nella disgregazione del team.
Il gruppo con il quale abbiamo lavorato presentava le caratteristiche tipiche di questa emergenza: gravi dissapori tra alcuni membri, disattenzione e scarsa focalizzazione sulle mansioni, clima di stanchezza e pesantezza nell’ambiente lavorativo, fino a scene di pianto e isolamento. Dopo alcune sedute singole e collettive per indagare le dinamiche relazionali interne al team, siamo riusciti a individuare le fonti di disagio: una di queste, forse la principale, consisteva nell’atteggiamento del leader, nel suo modo di rivolgersi – a partire proprio dal suo tono di voce – ai collaboratori più stretti.
In realtà è piuttosto comune ritrovarsi in questa situazione – a chi non è capitato? A noi accade con grandissima frequenza. La modulazione vocale veniva interpretata – ed elaborata – secondo uno schema personale che alimentava la convinzione del collaboratore di essere una persona non gradita o non abbastanza apprezzata nell’ecosistema del gruppo. Le intenzionalità espressive vocali sono vere e proprie paludi da attraversare; se non restiamo vigili e percettivi, il nostro sistema cognitivo, parsimonioso e sbrigativo, finisce sempre per scegliere strade veloci ma impopolari nell’approccio alle altre persone. Generalmente avviene quando rivolgiamo richieste a qualcuno mentre siamo impegnati in altro. Queste situazioni sono una delle fonti primarie di malintesi e attriti:
«Passami quel documento!»
«Mi passi quel documento?»
«Potresti passarmi quel documento?»
«Gentilmente, ti dispiacerebbe passarmi quel documento?»
Anche soltanto chiedendo un documento, se lo facciamo nel modo sbagliato e se non scegliamo un approccio “neutrale” pur conservando il messaggio esplicito, rischiamo di creare un “imbarazzo comunicativo”.
Tornando al nostro esempio e al tono del team leader, dovemmo constatare che il problema era di maggiore portata, e riguardava gli effetti del suo atteggiamento sugli altri componenti del gruppo di lavoro: le persone in stato di perturbazione emotiva finivano così per destabilizzare a loro volta gli altri colleghi, instaurando schemi relazionali negativi replicati in una catena che aveva trascinato l’intera squadra in una situazione di pericolo.
Tutto si è risolto per il meglio; ma in realtà che cosa era accaduto? Per quale motivo il leader prestava così poca attenzione al suo tono di voce nelle comunicazioni? E per quale motivo gli sembrava che tutto fosse perfettamente normale? Il secondo assioma della pragmatica della comunicazione umana di Paul Watzlawick, afferma che:
La comunicazione umana si sviluppa sempre su due piani: il contenuto e la relazione. Il piano della relazione classifica il contenuto della comunicazione. (Paul Watzlawick, Janet Beavin, Don Jackson, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Casa Editrice Astrolabio, Roma 1997 [1978]).
Dobbiamo intendere questo assioma nel modo seguente: ogni atto comunicativo non trasmette soltanto una componente puramente informativa, ma attiva al tempo stesso anche un comportamento. Tale comportamento è frutto della “componente di relazione” che, consciamente o inconsciamente, trasmettiamo al nostro interlocutore. Soltanto di rado la componente relazionale è definita in modo cosciente e razionalizzato. Inoltre, quanto più una relazione è spontanea e sana, tanto più l’aspetto relazionale della comunicazione passa in secondo piano. Viceversa, le relazioni non sane sono caratterizzate da un continuo conflitto per definire la natura della relazione, relegando il contenuto a un ruolo marginale. La sintesi tra contenuto e relazione determina ciò che una persona recepisce e comprende di una comunicazione o di un messaggio e ne condiziona i comportamenti e le scelte. Ecco perché possiamo dire che ogni atto comunicativo ha in sé un aspetto di contenuto e uno di relazione e che il secondo classifica il primo. In ogni comunicazione con l’altro si apre il gioco della definizione di chi si è. […]
Comunichiamo sempre ciò che siamo. Il nostro universo interno si rispecchia in tutto il panorama relazionale esterno. Se siamo “malati” dentro, saranno malate le nostre parole e saranno malati i nostri pensieri. Spesso noi continuiamo a soffrire senza fare uno sforzo per cambiare; ecco perché non troviamo pace durevole e appagamento. Se noi perseverassimo, saremmo certamente capaci di superare tutte le difficoltà. Dobbiamo fare lo sforzo, perché possiamo passare dalla miseria alla felicità, dallo sconforto al coraggio. (Paramahansa Yogananda, L’eterna ricerca dell’uomo, Casa Editrice Astrolabio, Roma 1980).
Accettiamo questa condizione perché preferiamo il familiare e il conosciuto all’incerto, al cambiamento, anche se proprio il cambiamento è in grado di portarci verso la salvezza e la serenità. Byron Katie sosteneva che «Una mente sana non soffre, mai» (Katie Byron, Il lavoro. The Work [DVD], Il Punto d’Incontro, Vicenza 2012). Ciò che possiamo e che dobbiamo fare è prenderne coscienza e affidarci alla nostra strada evolutiva.
Michele Micheletti
Dal libro Comunicazione Evolutiva (Anima Edizioni)
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