In Malesia esiste una piccola comunità interreligiosa che tenta di fondere le dottrine e gli insegnamenti dell’Islam, del Cristianesimo, dell’Induismo e del Buddhismo. Il simbolo venerato dai proseliti dell’ex musulmano Ayah Pin è una teiera, metafora della purificazione delle acque che si riversano sotto forma di pace e amore sull’intera umanità. Purtroppo però la comunità dal 1998 è perseguitata dal regime sunnita, repressivo e integralista.
Se non ci fosse in gioco la libertà di culto e delle persone, forse, la notizia potrebbe essere assumere i contorni della curiosità. Si è conclusa invece con la condanna a due anni di reclusione la vicenda della cittadina malese Kamariah Ali, ex insegnante di 57 anni, rea di aver venerato un’enorme teiera.
La sentenza ha così punito il reato di apostasia, cioè il cambio di fede. Ma questo fatto, ai nostri occhi alquanto bizzarro sia per l’affronto alle libertà individuali sia per la particolarità della religione in questione, in Malesia, invece, è soltanto l’ultimo dei continui soprusi da parte del Partito islamico, al governo dello stato asiatico, nei confronti di chi rifiuta le rigide regole dell’Islam sunnita.
La teiera incriminata è l’immenso simbolo di una setta, di una comune interreligiosa malese, denominata “Regno dei Cieli”, creata da Araffin Mohammed, meglio conosciuto come Padre Pin (Ayah Pin), verso la metà degli anni Ottanta. Essa raffigura il riversarsi della pace e della benedizione del cielo sull’umanità e – costruita nel 1998 nel centro di un villaggio contornato da colonne greche, barche e case con tetti a ombrello – è diventata il simbolo della ribellione religiosa in un paese dove la libertà ha il sapore rancido della fame.
Da quando Padre Pin (inizialmente musulmano), nonostante denunce, arresti e intimidazioni, ha deciso di fondare nei pressi della capitale Kuala Lumpur la sede di questa peculiare comunità – una sorta di parco giochi religioso per il nostro arido sguardo occidentale – è scattata la repressione governativamalese, motivata da parole come “minaccia per la sicurezza nazionale e per la sacralità dell’Islam” pronunciate dal Primo ministro, Abdullah Badawi, e dal suo capo del dipartimento degli affari islamici, il signor Abdul Hamid Othman. “Dobbiamo fermarli” hanno più volte infatti sentenziato.
Ma più che fermarlo l’hanno reso clandestino e così il migliaio di proseliti dell’Ayah Pin, seguaci di una riunificazione dottrinale di Islam, Buddhismo, Induismo e Cristianesimo, vengono perseguitati e vedono il loro Regno dei cieli, purificato dalle acque della teiera, lentamente scomparire sotto i colpi delle molotov e dei bulldozer sguinzagliati dal governo integralista. Tutto ciòanche se “nessuna legge è stata infranta”, come da anni lamenta polemica Eliz Wong, responsabile dell’Associazione malese per i diritti umani.
Ma l’attenzione planetaria nei confronti del fenomeno a cui i media occidentali hanno dato il dovuto spazio non può che essere un bene, anche perché tra Bali, Singapore, la stessa Malesia e altre zone della regione, i fedeli del Regno dei cieli e della sua tanto imponente quanto stravagante teiera, dall’inizio della persecuzione, sono aumentati, e con essi l’antagonismo alla tirannia religiosa del governo sunnita. (gv).
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