yod-yod-zain
Molti, troppi sono gli scopi a cui miro
Dal 9 al 13 ottobre
In Don Chisciotte, lo Yeyaze’el Miguel De Cervantes raffigurò pressoché tutte le caratteristiche dei protetti di questa Potestà: la grande energia, gli ancor più grandi ideali, e al tempo stesso lo smarrimento, il segreto timore di tanta grandezza interiore; e in tale timore maturano l’ancor più segreta voglia di non riuscire, l’attrazione per ogni sorta di ostacoli e nemici che blocchino la via, e la ricerca di lacci anche interiori, di debolezze personali da ingigantire, perché l’impulso a trasformare gli ideali in azioni ne venga smorzato il più a lungo possibile: Don Chisciotte è infatti sulla cinquantina, ovvero vecchio per gli standard di allora, quando finalmente decide di diventare un cavaliere errante. Lo tengano presente i suoi fratelli d’Angelo: che non tocchi anche a loro la sorte di scommettere troppo tardi sulle considerevoli doti di cui certamente dispongono! E quando poi decidono, devono ancora fare i conti con altri pericoli donchisciotteschi generati da quel timore di sé: la propensione – in alcuni quasi irresistibile – a legarsi appassionatamente a persone sbagliate, a Dulcinee insensate; l’ansia, sempre controproduttiva, di ricevere l’approvazione di molti, e al tempo stesso il suo contrario, disastroso anch’esso, la sensazione di essere individui eccezionali e appunto perciò tali da dover risultare incomprensibili ai più. Ne deriva l’incapacità, da un lato, di riposarsi e, dall’altro, di ascoltare consigli: ed è per questa via che finiscono con il battersi contro i mulini a vento, da cui vengono catastroficamente sconfitti, e di sconfitta in sconfitta approdano soltanto a una cupa rassegnazione, in cui ricapitolano gli errori commessi per dedurne soltanto che il mondo non è un buon posto per realizzare i sogni.
E in un certo senso quest’ultima cosa è vera, per tutti gli Yeyaze’el, se per mondo si intendono le possibilità che possono offrire loro le professioni consuete, quelle che hanno tredicesima e trattamenti di fine rapporto. Lì, non c’è proprio spazio per la loro meravigliosa personalità. Devono puntare altrove: a essere dei Cervantes, invece che dei Chisciotte! Trovino perciò professioni in cui usare il più liberamente e audacemente possibile la loro creatività. La loro mente ha percorsi troppo vasti ed elaborati perché riesca a esprimersi, o comunque a trovare una collocazione, entro le strutture già esistenti; deve produrne di nuove; l’arte è il loro campo, o magari la scienza, purché si tratti di ricerca d’avanguardia, o di rivoluzionarie invenzioni. E lì anche gli aspetti più eccessivi del loro carattere possono servire da ottimo materiale di costruzione: la troppo stretta coesione di ragione e sentimento, che aveva segnato la rovina di Chisciotte, in arte si rivela invece il più delle volte una benedizione, la condizione stessa dell’intensità dell’immaginazione. Ne sapevano qualcosa gli Yeyaze’el Antoine Watteau, Giuseppe Verdi, Montale e Pavarotti. È chiaro che non potranno aspettarsi esistenze regolari, in cui cercare quelle forme di felicità di cui la maggioranza si accontenta. Ma in realtà gli Yeyaze’el non le vogliono: né l’amore, né l’amicizia, e nemmeno il rispetto, la prudenza, la modestia, la ragionevolezza, come le si pratica di consueto, potranno mai rispecchiare le loro esigenze. Ciò che per altri è un pregio o buona educazione, per loro è un limite. Ciò che è normale per i più (un po’ di razionale egoismo, un po’ di tranquilla routine, un po’ di conflitti tradizionali con genitori, coniugi e figli) è per loro un nemico fatale. E viceversa, quel che ad altri appare come difetto diviene, per gli Yeyaze’el che abbiano fiducia nel loro talento, una condizione operativa: il ritenersi fuori norma, incommensurabili, per esempio, dà loro la forza di osare ciò che nessuno aveva osato prima; il non accettare consigli è il presupposto della loro autonomia, della loro originalità creativa (che ne sarebbe stato di Verdi, o magari dello Yeyaze’el Harold Pinter, se avessero dato retta a qualche cauto contemporaneo più anziano?); e persino la mancanza di equilibrio, l’incapacità degli Yeyaze’el di affrontare razionalmente i loro problemi privati, diviene ragione e alimento della loro arte, nella quale tutto ciò che nella loro esperienza personale è irrisolto viene trasformato in storie e forme in cui tanti altri possano riconoscersi. Quanto poi ai mulini a vento, non c’è davvero artista né scienziato che non ne abbia bisogno, nell’affrontare la fatica di un’opera: se si fosse accontentato di avversari più concreti, avrebbe infatti scelto più vantaggiosamente la politica, o la morale, per dare una forma alle proprie idee.
Certo, accettare una vocazione artistica o scientifica non è facile nel mondo d’oggi: ma la solitudine che richiede, la concentrazione, il continuo altalenare tra speranza di valere qualcosa e timore di non valere abbastanza, di star soltanto sognando, gli Yeyaze’el le devono affrontare comunque nella loro vita; e tanto vale dunque assumersele a ragion veduta, con obiettivi precisi. Mal che vada, potranno sempre ripiegare sull’insegnamento, piccolo porto sicuro degli Yeyaze’el più incerti o modesti, e dedicarsi a incoraggiare i giovani ad affrontare le belle carriere in cui loro non hanno voluto brillare.
Testo per gentile concessione di Igor Sibaldi, estratto dal Libro degli Angeli
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