Essere Apocalisse

La persona che pratica il Vangelo diventa l’Apocalisse, perché rivela la verità, realizza Dio. Ognuno deve portare l’Apocalisse, non ha senso vivere passivamente. Che finalità avrebbe Dio nell’avermi dato la vita e la possibilità di compartecipare alla sua volontà se, invece, io non faccio nulla? (Enzo Comin, Vangelo Pratico)

 

Per orientarsi, potremmo intendere con il termine “consapevolezza” il percepire la realtà e il modo in cui viene concepita. La reazione cognitiva che un essere senziente ha è direttamente influenzata da come percepisce l’ambiente. Diventa allora fondamentale accorgerci effettivamente di come viene concepita la realtà.

Nel libro dell’Apocalisse si parla della fine dei tempi e così chi lo legge tende a interpretarla come la fine di tutto, una generale distruzione. Per apocalisse si intende “rivelazione”: sarebbe più adatto tradurlo come “Libro della Rivelazione”. Non si parla, infatti, della fine del mondo, ma della fine di un tempo, di un’epoca, di una modalità che lascia il posto a un’altra.

La rivelazione sarà possibile perché avverrà tramite il ritorno di Cristo. Non si deve però fantasticare che sia come se Cristo arrivasse e ci prendesse uno a uno sottobraccio e a mo’ di un maestro paziente finalmente ci rivelasse come stanno le cose, la verità su tutto. Piuttosto, ognuno di noi deve rivelare la verità agli altri, all’universo. Ognuno di noi deve realizzare nella propria vita Dio e in questo modo manifestarlo agli altri e manifestare il Suo volere. Cosa, appunto, possibile attraverso il Vangelo: ecco il senso del collocare il libro dell’Apocalisse alla conclusione dell’intero percorso del Nuovo Testamento.

Dio non è quell’uomo barbuto che si vede raffigurato nelle antiche icone, non può fare l’esperienza materiale come fa l’uomo grazie alla vita terrena. Perciò, può fare esperienza attraverso le nostre esperienze, può manifestarsi attraverso l’universo, l’uomo.

Già da questo si intuisce che si comincia a essere influenzati da una nuova consapevolezza: tutte le scelte che faccio, le faccio anche per Dio. In qualsiasi cosa: se devo fare un’esperienza, la faccio al meglio perché tramite me anche Dio la fa; se bevo un vino, scelgo il più gustoso, perché attraverso la mia bocca anche Dio lo godrà; se vado al ristorante, cerco il più prestigioso, perché quello che mangerò sarà anche quello che Dio mangerà, e così via.

Può essere che questa considerazione appaia esagerata, però permette di accettare un elemento decisivo nella mia ricerca di Dio: che è un mistero. Oggigiorno è in un certo modo inusuale parlare di misteri in quanto grazie alle nuove tecnologie si può accedere a tutte le conoscenze disponibili: non c’è più spazio per l’ignoto. Avere sempre una risposta, tuttavia, non arricchisce la curiosità ma la infiacchisce perché non permetterebbe lo stimolo che si evolve in una ricerca, un’indagine. Ebbene, Dio, invece, è un mistero ed è incomprensibile. Finora ho giustamente scritto di dedicarsi a “conoscere” Dio, comprendere è un’altra cosa: un mistero non è comprensibile. C’è un imbroglio da qualche parte quando qualcuno afferma di poter spiegare Dio.

Dio è incredibile: io posso credere a qualcuno che mi parla, a ciò che recepisco con i sensi e con la mente, addirittura a concetti astratti, ma a Dio non si può credere. È che l’uomo non ha neppure gli strumenti per poterlo fare, si potrebbe affermare che la mente non è strutturata da riuscire ad afferrare pienamente qualcosa come Dio. Si è visto che l’impegno intellettuale può avvicinare enormemente, però presenta dei limiti oltre i quali uno può credere in Dio solamente convincendosene; ma allora sarebbe come convincersi di credere in un personaggio di fantasia, è solo una mera imposizione che uno si fa con la mente. Di conseguenza, è come se fosse frutto di ragionamenti, e Dio non può essere un mistero risolto con un pensiero; altrimenti non sarebbe un mistero ma solo qualcosa di non ancora del tutto venuto allo scoperto.

Verso Dio, allora, si può solo avere fede, la quale segna la modalità per poter vivere una relazione con qualcosa di misterioso. Avere fede, insomma, è accettare di condividere la vita intera con un mistero che, per qualsiasi cosa si faccia, non sarà mai risolvibile. Non si può credere in un mistero, perché non si può appieno conoscere l’oggetto a cui si dovrebbe credere. La fede stessa è un mistero, perché praticandola ne concretizza il rapporto.

Ho scritto che seguire il Vangelo permette di conoscere Dio, ma ho anche scritto che per consapevolezza si intende fare l’esperienza della ricerca innanzitutto. E qui si può trarre l’occasione per fare il primo nuovo passo in avanti: quello che si conosce di Dio è che non si può conoscere. Seguire il Vangelo, pertanto, è un tendere costantemente alla conoscenza di Dio, che è quindi un’azione che seppure non comporterà di conoscere Dio in senso stretto, farà essere sempre di più a Lui prossimi e da tutto ciò suggestionati.

A questo punto, la persona che pratica il Vangelo diventa l’Apocalisse, perché rivela la verità, realizza Dio. Ognuno deve portare l’Apocalisse, non ha senso vivere passivamente. Che finalità avrebbe Dio nell’avermi dato la vita e la possibilità di compartecipare alla sua volontà se, invece, io non faccio nulla? Ovviamente Dio mi ama lo stesso, però è come se andasse sprecata una bella opportunità, da entrambe le parti.

Si desume che Dio è vivo e fa cooperare gli eventi per degli scopi precisi. Nella tradizione cattolica, infatti, l’uomo viene identificato come co-creatore: è elemento decisivo per l’universo.

Io non sono Dio, ma attraverso di me Egli può manifestarsi, mettere in forma concreta la Sua volontà. Senza che ce ne rendiamo conto, contribuiamo agli obiettivi di Dio. E contribuiamo così all’Apocalisse; però, quali tempi devono finire esattamente? S’intende, logicamente, non di parametri spaziali e temporali precisi. Sono la fine di un mondo non fisico, esistenziale, mentale. La soluzione sta nel Vangelo: la fine di un mondo che si realizza attraverso l’appagamento dell’ego, il personale sforzo di raggiungere quello che si desidera. I comportamenti egoistici sono la formula più efficace per ostacolare il rapporto con Dio; liberandosene, si crea maggiore spazio dentro di sé affinché Dio possa realizzarsi.

Io immagino le persone come argini di un torrente e l’energia di Dio è l’impeto dell’acqua che ci scorre dentro. Ogni qualvolta mi convinco che sono io l’autore dei miei successi, che la mia volontà è ciò verso cui devo far tendere tutti i miei sforzi, questo canale si interrompe. È come se il mio ego vada a ostruire questo collegamento: più viene alimentato il primo e meno ha respiro il secondo. Però vale anche viceversa.

Per come la società ci abitua, è difficile ai giorni nostri contemplare che sia un limite il voler realizzare la propria volontà. Concretizzare i sogni è la massima soddisfazione, viene visto come missione in questa vita perché assicurerebbe la felicità. Si può davvero affermare che chi ha realizzato i propri sogni sia anche felice?

Quand’ero giovane, il mioobiettivo era diventare un grande artista, eppure so che ci sono grandi artisti che non sono affatto felici. Uno può individuare come felicità l’avere una posizione o una macchina di lusso o poter vivere senza lavorare, ma questo vorrebbe dire che chi ha ottenuto queste cose sia anche felice. Pure dal punto di vista statistico è impossibile: ci sarà sicuramente qualcuno che ha una posizione nella vita e non è felice, uno che ha un’auto di lusso e non è felice, uno che è sempre in vacanza e non è felice. Se tu pensi che, invece, ottenendo quello che vuoi sarai invece felice, allora, nuovamente a livello probabilistico, non stai affidandoti a una formula vincente ma all’azzardo. Per converso, se si è convinti che un oggetto della realtà percepibile porta la felicità non appena lo si raggiunge, allora vorrebbe dire che chiunque raggiunga quell’oggetto abbia anche una vita felice… e non è così.

Io non sogno più di diventare un grande artista e sono felice. Non sto consigliando di essere senza desideri, ma che avere come unico desiderio il realizzare la volontà di Dio fa conseguire la felicità. L’essenziale è rendersi conto che qualsiasi cosa si possa ottenere nella realtà percepibile non può portare felicità se non in modo transitorio; proprio perché la transitorietà è la caratteristica di questa realtà. Invece, nello spirituale si può accedere alla felicità che è permanente; io parlo del Dio cristiano perché è quello che trattiamo, ma ciò avviene anche a chi non è cristiano, non è credente. Non ho mai incontrato nessuno che abbia trovato la fede in Dio e che non sia felice.

Lo spiego ancora facendo, per adesso, principale uso dell’intelletto con questo ragionamento: è possibile desiderare qualcosa che non si conosce ancora? No, non lo è, perché se una cosa non la si conosce ancora non si sa neppure che esiste. Quindi, tutto ciò che una persona è in grado di desiderare ha esclusivamente a che fare con il proprio passato: si può volere solo quello che si conosce, non si può volere qualcosa di cui si ignora l’esistenza. Pertanto, attingendo al passato non è possibile modificare il proprio futuro perché si sta semplicemente desiderando qualcosa che ha creato le condizioni attuali, cioè quelle che si vorrebbero cambiare. Affidarsi invece alla volontà di Dio, significa accettare di vivere qualcosa che non abbiamo programmato, di imprevedibile, un salto nel vuoto, un’avventura.

Accettare il mistero, ripeto, è il primo passo del viaggio verso la consapevolezza. Un salto nel vuoto fa paura e questo è il motivo per cui spesso ci si accomoda a sostenere che bisogna piuttosto vivere tenendo tutto sotto controllo. Ma la vita non è un momento a cui stare attenti.

Enzo Comin

Dal libro Vangelo Pratico

 

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