he-resh-heth
Io porto l’invisibile nel mondo concreto
Dall’11 al 15 gennaio
I protetti dell’Arcangelo Harahe’el appartengono alla categoria degli animi generosi, ampi: di coloro, cioè, la cui crescita spirituale ha già quasi superato la dimensione dell’«io», e che trovano quindi insufficiente tutto ciò di cui la stragrande maggioranza delle altre persone si accontenta o va addirittura orgogliosa. Agli altri basta guadagnare per se stessi e per i loro cari? Agli Harahe’el sembrerebbe una prospettiva soffocante. Gli altri sono contenti di abitare nel loro presente, e credono sia già una gran cosa capire la propria civiltà? Gli Harahe’el hanno invece bisogno di spaziare, di conoscere e far conoscere l’altrove, il futuro, il passato, l’ignoto. Si sentono al tempo stesso esploratori e tramite, media, porte attraverso le quali ciò che è stato dimenticato o ciò che ancora non è stato scoperto possa giungere nella loro epoca attuale, e ampliarla. Può trattarsi, nei casi più eroici, di ideali, di grandi sogni ancora irrealizzati – «I have a dream…» tuonava lo Harahe’el Martin Luther King nel più celebre dei suoi discorsi.
Oppure, più semplicemente, di idee nuove: quando è questo che li interessa, una qualche loro antenna li guida con sicurezza verso ciò che è più all’avanguardia in qualche altra nazione, e se ne impadroniscono, lo divulgano, lo trapiantano là dove abitano, preoccupandosi che metta radici e dia frutto.
O ancora quando si interessano più degli individui che dei Paesi, quella stessa antenna permette loro di cogliere in voi qualità e possibilità che, talvolta, voi stessi ignoravate o sospettavate appena: e sanno incoraggiarle, educarle, promuoverle, rivelandosi ottimi agenti e talent scout.
Allo stesso modo potrebbero essere archeologi e antiquari di successo: audaci, ispirati Geiger di tesori sepolti o rimasti per secoli in cantina; o detective degli archivi, in cerca di manoscritti preziosi; o magari cacciatori di fantasmi, o di indizi di extraterrestri di passaggio – e anche in questi casi non avrebbero difficoltà a rendere le loro scoperte pubbliche e clamorose, trasformandole in congrue fonti di reddito: poiché tutti gli Harahe’el hanno il dono, e la vocazione, di produrre e moltiplicare ricchezze. D’altronde l’oro non è forse il simbolo di ciò che aumenta le possibilità della vita? È anch’esso, a suo modo, una materializzazione dell’altrove, un condensato di potenzialità: appunto così lo intendono gli Harahe’el, e perciò lo amano e, solitamente, ne sono amati. Jack London, quanto a questo, è uno dei loro più vigorosi rappresentanti, con la sua mitologizzazione della Gold Rushnell’estremo Nord, in cui gli ultimi pionieri americani, seguendo le tracce dei giacimenti, andavano in realtà in cerca dell’assoluto.
Vi è poi anche la variante più estrema: gli Harahe’el che si spingono ancora più in là ed espandono il loro «io» fino a capolavori di generosità: come il dottor Albert Schweitzer in Africa; o addirittura fino all’Altrove con la maiuscola, come la più famosa tra gli Harahe’el, Giovanna d’Arco, che parlava direttamente con il suo Arcangelo – e anche lei con la ferma intenzione di dover donare agli altri sapienze celesti, di servire da veicolo tra i mondi.
Certo, un po’ fanatici lo sono spesso; anche agli Harahe’el con i piedi ben piantati a terra hanno una loro caratteristica grinta e un’intransigenza da antichi riformatori. Ma è comprensibile: i limiti del qui e ora, lo status quo, hanno una forza di gravità che impone, a chi la voglia superare, una propulsione tale da dar luogo facilmente a slanci eccessivi. Gli Harahe’el, per seguire davvero i loro impulsi verso il futuro o verso il passato lontano, devono imparare a essere particolarmente duri contro il passato prossimo: contro le forze, le barriere dello ieri, sia nostro, sia soprattutto dei nostri famigliari, che impiglia sempre le nostre vite più di quanto siamo disposti ad accorgerci. È addirittura difficile da individuare, lo ieri: molto di ciò che chiamiamo «presente» è, infatti, solamente sopravvivenza di questioni non risolte di trenta, quarant’anni fa: debiti e crediti esistenziali da sanare, rimorsi, rimpianti, promesse da mantenere, nostre, dei genitori, dei nonni… E fin da piccoli gli Harahe’el lo intuiscono, e sentono tutto ciò come una pena e una sfida: il loro compito è vincerla – a denti stretti e muso duro – e non c’è dunque da stupirsi se nel farlo non brillano per senso dell’umorismo, o appaiono bruschi, spietati e arroganti. Che farci. Devono mettercela tutta: il rischio che corrono è di restare incastrati in quei solai e cantine dell’anima – nel qual caso, tra sé e sé centellineranno per tutta la vita una sensazione di profondo fallimento, che li renderà amarissimi e cinici, e nei rapporti con gli altri farà di loro proprio l’opposto di quel che l’Arcangelo avrebbe preteso: conservatori acerrimi, freni personificati, pompieri di tutto ciò che è nuovo e promettente, raggelatori degli animi, come se volessero negare anche ad altri ciò che non è stato possibile a loro. Così, in Italia, fu spesso lo Harahe’el Andreotti.
Non hanno mezze misure nemmeno nella vita privata: in amore – e nel sesso – cercano l’assoluto, sostenuti in ciò anche dalla loro prepotente energia fisica, e possono scavalcare coraggiosamente alti ostacoli per raggiungerlo, se l’hanno intravisto, lasciandosi indietro anche legami e fedeltà. Nei periodi, invece, in cui non intravedono occasioni nei dintorni, e desistono troppo a lungo dalla ricerca, tanto più difficilmente scampano alla tentazione di avvolgersi in mummie di pregiudizi, timori e senilità precoce, preparandosi così a fornire ai loro eredi un carico di passato prossimo non meno pesante di quello che loro stessi avevano ricevuto da papà e mamma. Devono amare, insomma, desiderare. «I have a dream.» E allora hanno e danno gloria.
Testo per gentile concessione di Igor Sibaldi, estratto dal Libro degli Angeli
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