In nome della madre

 

Intervento di Viviana Usai e Gian Paolo Del Bianco al convegno Dialoghi sulla Coscienza, organizzato da Centro Mosaica a Lido di Camaiore (LU) il 6-7-8 aprile 2018.

 

Tra gli argomenti del video:

È la storia di tre sorelle, tre donne adulte che si ritrovano in un momento particolare della vita, avendo appena perso la madre.

Le sorelle Carla e Anna si rapportano fra loro in modo conflittuale. Ripensano alle memorie del passato, un luogo sacro che però è anche infestato dai fantasmi della rabbia, del dolore, del senso di colpa.

Le memorie sono sacre ma anche soggettive. Qui abbiamo la stessa storia raccontata da tre punti di vista diversi.

La figura della madre che comincia a emergere è una madre che chiede, chiede sempre.

Dobbiamo ricomporre il puzzle dei mandati e dei ruoli che queste donne si sono sentite chiedere dalla madre.

A volte usiamo la rabbia in maniera distruttiva, nel tentativo di proteggere le nostre creature interiori.

In realtà la rabbia può essere una risorsa potente, se la usiamo per costruire e sistemare ciò che va sistemato.

Quando siamo arrabbiati con l’altro, il nostro ego ci fa sentire superiore a lui.

La sorella maggiore sembra la mediatrice fra le due che litigano, ma in realtà lascia che il vulcano tra le due erutti.

A un certo punto Anna comincia a mostrare un pezzo di sé, rivelando quello che c’è dietro la sua collera e la sua rabbia: il vero problema non era la sorella, ma la ferita di non essere stata riconosciuta dalla madre.

Quando riusciamo a raccontare la nostra ferita, si apre un varco in noi. La rabbia allora diventa una risorsa; se la guardiamo bene scopriamo che è una porta.

Con la morte della madre queste tre donne hanno l’occasione di deporre la loro armatura.

Cominciamo a intuire come la madre abbia spartito i pezzi di sé alle figlie. Alla prima ha chiesto di essere sua madre, colei che la accudisce. Alla seconda ha chiesto di essere perfetta. E alla terza, la sorella più aggressiva, ha chiesto in pratica di non esserci, in quanto lei stessa racconta come non si è mai sentita voluta, magari perché volevano un maschio.

Carla è sempre stata la figlia perfetta, brava a scuola, bella, che collezionava successi. Carla aveva bisogno di essere straordinaria, diversamente avrebbe rischiato di perdere l’adorazione degli altri.

Un bambino che per tanto tempo si sente dire che è un buono a nulla, alla fine fa suo questo pensiero, e crescendo lo fa dire al suo genitore interiore.

Queste donne portano in scena le parti di loro che pesano e che sono frutto di una eredità. Quando ricevo un’eredità, tuttavia, posso accettarla o rifiutarla. E alla fine le tre sorelle rivedono questa eredità per rimetterla in discussione.

Scopriamo infine che il grande assente nella vita delle tre sorelle è il padre. La più grande delle figlie ha quindi preso la decisione di compensare il dolore della madre per questo.

In psicologia si è resilienti quando si affrontano e si elaborano i traumi, uscendone più forti e non indeboliti. Le tre sorelle sono una famiglia resiliente perché affrontano “l’urto” della morte della madre e lo usano per uscirne più forti.

Donata è stata investita del ruolo del salvataggio e nel ricoprirlo ha dimenticato se stessa, la sua vita, il suo piacere.

Questo eccessivo altruismo crea squilibrio, come tutti gli eccessi. L’adulto una volta cresciuto si porta dietro il demone del senso di colpa, che gli fa percepire di tradire il genitore se esce da quel ruolo per occuparsi della sua vita.

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