Con una scelta consapevole e sistematica di termini e di espressioni (da privilegiare o da eliminare) è possibile cambiare la struttura dei neuroni nel cervello e, di conseguenza, cambiare la qualità della propria vita…
La facoltà di scegliere può esercitarsi con effetti straordinari (se sostenuta, come sempre, da una valida motivazione e consapevolezza) anche a livello espressivo: più precisamente, nella scelta delle parole con cui diamo forma ai nostri pensieri e sentimenti. Il linguaggio, i vocaboli e in particolare le metafore che usiamo sono lo specchio di chi siamo. Pertanto, rendersi conto dei termini con cui siamo soliti esprimerci, interpretando noi stessi e il mondo che ci circonda, può costituire, oltre tutto, un ottimo mezzo di autoanalisi per portare alla luce ciò che esiste realmente dentro di noi.
«Il fattore più significativo nella costituzione della realtà» scrive Richard Bandler, «è il linguaggio. È il linguaggio che ci consente di imporre un ordine alla “florida e frastornante confusione” che è la realtà. È creando categorie, distinzioni e definizioni che noi creiamo il nostro universo. Le qualità di questo universo, pertanto, dipendono da come utilizziamo il linguaggio» (op. cit.).
Se manca un concetto, manca la parola corrispondente, e viceversa. Ricordo la testimonianza di un missionario che aveva trascorso molto tempo in un remoto villaggio africano, imparando il dialetto di quella sparuta comunità, e tuttavia mi disse che, quando volle tradurre la parola «carità», non trovò il vocabolo, semplicemente perché quel concetto non rientrava nella loro cultura.
In greco antico il sostantivo logos significa sia «parola» sia «ragionamento», esprime, cioè, tanto la forma del pensiero quanto il contenuto stesso in un’unità inscindibile. Ma questo intrinseco collegamento è reversibile: come il pensiero (e lo stato emotivo) determina la parola, così è possibile agire sulla mente tramite l’uso della parola. È questo il punto di partenza della Programmazione Neuro-Linguistica, secondo la quale è possibile riprogrammare la propria neurologia tramite l’uso sistematico del linguaggio. Esso, infatti, non è un semplice “veicolo” del pensiero, quasi fosse uno “scivolo” neutro attraverso cui scorre la comunicazione, ma dà forma al pensiero e inevitabilmente lo condiziona. «Comprendere il ruolo che il linguaggio gioca nel creare i vostri modelli mentali vi darà il potere di cambiare l’esperienza che avete del mondo» conclude il “padre della PNL”, «e, così facendo, cambiare il modo di rispondere agli stimoli che ricevete».
Con una scelta consapevole e sistematica, dunque, di termini e di espressioni (da privilegiare o da eliminare) è possibile cambiare la struttura dei neuroni nel cervello e, di conseguenza, cambiare la qualità della propria vita. Le parole infatti, nate per esprimere un pensiero e uno stato d’animo, possono avere in sé valenze positive o negative, e una corrispondente carica evocativa, che ovviamente può variare da persona a persona in base alle esperienze a cui è connessa (spesso a livello inconscio). Esse hanno immediate ripercussioni sulla mente, che può venirne turbata o rasserenata. Di fatto producono lo stesso effetto delle azioni (sono azioni, in quanto atto e manifestazione del pensiero) e spesso, anzi, risultano più incisive e “taglienti”. A ragion veduta si dice che «la lingua ferisce più della spada» e i suoi effetti sono spesso irrimediabili, come ricordano i famosi versi di Metastasio: «Voce dal sen fuggita / più richiamar non vale. / Non si trattien lo strale, / quando dall’arco uscì».
Da qui tutta una serie di raccomandazioni nei libri sapienziali di ogni cultura, come nella Bibbia: «Chi sa tace, chi non sa parla», «Le parole del saggio sono pesate sulla bilancia», «Anche lo stolto, se tace, passa per saggio, ma è preso al laccio dalla sua stessa lingua», fino al severo monito per cui «Renderete conto di ogni parola vana» (!).
Gli insegnamenti del Buddha a proposito dell’uso delle parole non sono da meno, raccomandando di «non mentire», «non denigrare», «non parlare in modo rude» e di «non fare chiacchiere inutili». Ci sarebbe da fare in proposito tutto un discorso sulla sacralità del suono e della parola, dal divino Om al Cristo Logos-Verbo «fatto carne», ma questo ci porterebbe troppo lontano. Resta tuttavia importante tenere presente questo aspetto sacro e “magico” della parola, capace di agire sulla materia.
In effetti occorre ponderare, cioè, alla lettera, «pesare», le parole (proprio come sulla bilancia), perché esse possono determinare nuove neuroconnessioni, con relativi stati d’animo e azioni, sia in noi sia in chi ci ascolta. «Le parole rendono i pensieri reali» osserva Lucia Giovannini nell’ottimo “manuale di vita” intitolato Tutta un’altra vita (Pickwick 2013), «per questo occorre sceglierle attentamente, come faremmo con le calorie di un cibo davanti allo scaffale del supermercato». E poiché, data la loro potente carica evocativa, «le parole possono imprigionarci o renderci liberi», raccomanda di valutare le «calorie delle parole» e di adottare una «dieta linguistica» basata sul rispetto, l’amore e l’apprezzamento, consapevoli che «a seconda dell’energia immagazzinata nelle parole, esse hanno diverso valore ed effetto sulle nostre emozioni. Il nostro modo di parlare influisce sul nostro stato d’animo, sulle credenze, sulla percezione della realtà e sul comportamento». In sintesi, come ama ripetere Louise Hay, «le parole e i pensieri ci ritornano sotto forma di esperienze».
Di conseguenza, alcune parole, come «ansia», «stress», «male», «odio», «rabbia», «sfortuna» e simili, andrebbero limitate il più possibile (se non del tutto bandite), essendo cariche di “radiazioni negative”. Al contrario è assai benefico ricorrere con frequenza a termini positivi, quali «calma», «tranquillità», «bene», «amore», «pazienza», «fortuna», «fiducia», «speranza», «serenità»… Tutto ciò che costituisce un “linguaggio distruttivo” può essere sostituito con uno “costruttivo” tramite corrispondenti espressioni “potenzianti”: così il faticoso «devo» è bene che lasci il posto ad un energico «scelgo di» (come abbiamo visto a proposito di quel professore che ogni mattina affermava di “scegliere” di andare in classe); invece di «non devo» diremo meglio «non desidero»; «non posso» diventerà un coraggioso «non voglio»; la devastante «colpa» si trasformerà in dignitosa «responsabilità», il «problema» in «questione» o «opportunità», il «non riesco» in «farò di tutto per», il «difficile» in «non facile».
Nel compiere questa scelta lessicale occorre tener presente quanto già avevamo osservato a proposito del potere delle affermazioni suggerite da Louise Hay, come bene precisa la Giovannini nel suo libro: «La dieta linguistica non è composta da bugie riguardo il presente, ma piuttosto da semi per il futuro… Se abbiamo pazienza e continuiamo ad annaffiarli, ovvero continuiamo ripetutamente a usare il nuovo linguaggio, alla fine il frutto desiderato maturerà. Ovviamente questo processo non comporta negare la realtà: se non ho i soldi per pagare l’affitto, mi servirà ben poco affermare che il mio conto in banca è prospero: molto probabilmente finirei comunque in mezzo alla strada. In quel caso è molto più utile affermare che ho in me tutte le capacità per generare denaro. Questo nuovo pensiero magari mi spingerà a contattare possibili clienti, a fare diversi colloqui di lavoro o a creare una nuova attività. Attraverso un uso proprio del linguaggio, infatti, promuoviamo nuove neuroconnessioni che danno vita a percezioni, stati d’animo e azioni nuove».
Ricordiamo, a questo proposito, l’importanza della ripetizione e dell’intensità emozionale quali ingredienti base del pensiero positivo. Anche gli esercizi di Programmazione Neuro-Linguistica si basano sul presupposto che le frasi negative debbano essere evitate. Dire, per esempio, «Sono timido» rafforza la timidezza, perché intensifica la programmazione negativa. Soprattutto i consigli al negativo, basati sul «non fare» o «smettere di», non funzionano, perché il sistema nervoso non è strutturato per elaborare le negazioni. Bisogna invece puntare sul «fare». Se dici a un bambino di tre anni di non rovesciare il latte, esemplifica Bandler, probabilmente lo rovescerà; ma, se gli dici «Bravo, tieni il bicchiere con tutte e due le mani», il suo cervello assimilerà direttamente uno schema comportamentale positivo.
La disponibilità all’incoraggiamento, piuttosto che al rimprovero e alla critica, è un prezioso atteggiamento esistenziale che si accompagna alla scelta verbale positiva in un circolo virtuoso di causa-effetto. Evitare il disfattismo e moderare la propria impetuosità con la scelta di parole misurate, concrete, legate ai fatti e non al carattere della persona, aiuta a migliorare i rapporti e crea equilibrio e serenità.
Nel suo libro Come affrontare i problemi di tutti i giorni (Newton Compton 2015) Pino Di Sario sottolinea l’importanza dell’apprezzamento e della critica positiva. Come esempio di “critica distruttiva” e della sua possibile trasformazione adduce questi esempi: «Sei sempre in ritardo!» (critica generale) > «Il tuo ritardo di ieri mattina…» (critica mirata); «Sei il ritardo in persona!» (critica sulla persona) > «I tuoi ritardi creano disagio al gruppo» (critica sul comportamento); «Con te non cambia mai niente!» (critica senza spiraglio) > «Dobbiamo accordarci subito» (critica con spiraglio aperto).
Oltre alla qualità delle parole di cui scegliamo di servirci è importante anche prestare attenzione a come le ordiniamo nella frase, dal momento che quelle poste all’inizio risultano più importanti, perché meglio recepite dall’interlocutore. Tutti i cultori della Programmazione Neuro-Linguistica conoscono il classico esempio dei due preti che vanno dal vescovo per ottenere il permesso di fumare mentre pregano. Il primo chiede: «Mentre prego, posso fumare?». Il vescovo risponde inorridito: «No! La preghiera è una cosa sacra!». Il secondo invece chiede: «Mentre fumo, posso pregare?». E il vescovo, quasi con ammirazione: «Ma certo! Tu puoi pregare in tutti i momenti: quando cammini, quando mangi…». La domanda è la stessa, ma la sequenza, cioè la programmazione, è diversa, e il risultato sulla neurologia della persona è diverso.
Vale la pena, da ultimo, fermarci un attimo a considerare l’importanza (e la bellezza) di conoscere il reale senso dei vocaboli, oggetto di studio della etimologia (dal greco étymos, «vero», e logos, «parola», «significato»). Scopriremmo allora che ogni parola non è una semplice tesserina di una frase, come di un mosaico, oppure un suono convenzionale, ma racchiude in sé un giudizio sulla realtà, spesso sorprendente per la sua storia e per la profondità del suo ignoto inventore.
Così, se diciamo «ricordare», siamo consapevoli che significa «tornare al cuore» (in latino la particella re-, «di nuovo», «indietro», indica ritorno, mentre il verbo deriva da cor, cordis, «cuore», considerato un tempo sede della memoria, prima che del sentimento: ma può esistere un ricordo significativo senza un sentimento?). E se diciamo «nostalgia», esprimiamo la «sofferenza» (in greco algos) per il desiderio del «ritorno» (nostos). Chi, poi, ha creato la parola «correggere» aveva un’intenzione pedagogica ben diversa da quella inquietante e punitiva che evoca in noi il ricordo di impietose sottolineature in rosso o in blu. Il verbo indica in origine tutt’altro atteggiamento, alludendo al gesto del maestro o genitore che amorevolmente insegna al fanciullo a scrivere, tracciando i primi caratteri sulle tavolette cerate con uno strumento appuntito, lo stilo (da cui lo «stile»): c’è la mano dell’adulto che, sovrapposta a quella del piccolo alunno, «regge insieme» (cumrégere), guidandola nei nuovi percorsi della scrittura.
Siamo consapevoli, infine, che dare un nome alle cose crea una falsa “assuefazione” ad esse, nell’illusione di conoscerle. Qualcuno ha ipotizzato perciò che l’uomo abbia inventato il linguaggio non, in primo luogo, per comunicare, ma per esorcizzare la paura dell’ignoto. In effetti le parole sono solo simboli grafici e sonori e non hanno nulla in comune con la realtà, che rappresentano in modo convenzionale. Per questo e per se stesse (in quanto permettono di dare forma e trasmissione al nostro mondo interiore) sono cariche di mistero, e il mistero ci riporta alla dimensione sacra della vita. Sceglierle con cura, quasi con rispetto, può permetterci non solo di creare messaggi positivi, portatori di amore e di pace, ma anche di rinnovare in noi lo stupore della comunicazione e la consapevolezza del miracolo che stiamo vivendo.
Cesare Peri
Estratto dal libro Il Potere della Scelta (Anima Edizioni).
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