Il corpo fisico non mente mai, è la porta privilegiata aperta sulla nostra verità, sul nostro equilibrio, sulla nostra salute, sui movimenti dell’anima e della spiritualità. Il corpo fisico è anche il solo mezzo per raggiungere alti livelli di coscienza.
In tutte le tradizioni di tutte le culture, ma soprattutto nella Quarta Via di Georges Ivanovič Gurdjieff, emerge chiaro che il vero lavoro dell’essere umano è di creare una coscienza auto-osservante, tale da poter coordinare o, nel migliore dei casi, di “vedere” le tre parti che lo compongono e cioè: il corpo fisico, la mente e le emozioni. Queste tre parti funzionano sempre meccanicamente: esse instaurano abitudini che, col lavoro giornaliero su noi stessi, potremmo chiaramente vedere. Questo lavoro, però, non vede mai la fine: di volta in volta, nel corso della vita, salirà il livello di presenza alla realtà, senza aver mai la sensazione d’aver concluso l’opera. L’agire meccanico è il prodotto della cultura alla quale apparteniamo, dell’educazione famigliare, della storia, delle richieste del mondo circostante, di tutto tranne che dell’individuo stesso. Quindi, come disse Sigmund Freud, “l’io non è padrone in casa propria”: crede di sapere chi è e cosa vuole, ma in realtà non è così. Esso, identificato proprio con tutte le attività meccaniche che svolge, vive in un costante sonno. Che allevi pecore o vinca il Nobel per la fisica, poco conta: la condizione ordinaria dell’uomo e della donna è il sonno. Tutti hanno insegnato la stessa cosa: il Buddha, Krishnamurti, Gurdjieff, Paramhansa Yogananda coi suoi maestri e, in capo a tutti, ammesso che si sappiano davvero leggere le pagine sublimi del Vangelo, Gesù Cristo.
Il lavoro della vita è proprio solo questo: scoprire chi si è in realtà. Se ne deduce che l’autenticità e la volontà non sono un regalo della natura, ma il frutto del lavoro costante, quotidiano, senza interruzioni, fatto sulla presenza, soprattutto al corpo fisico. Il Cristianesimo esoterico della prima ora e tutte le più autentiche vie di ricerca della verticalità, danno un’importanza totale al corpo fisico in quanto luogo sacro della ricerca.
Chi entra nel mondo della sofferenza, sia come terapeuta che come malato, dovrebbe quotidianamente tenere presente questo tipo di lavoro, perché il dolore cresce laddove non c’è consapevolezza di sé. Non vorrei essere frainteso: la consapevolezza non agisce da antidolorifico, ma restituisce al dolore la propria dimensione di senso al dolore e, cioè, ne fa uno strumento di conoscenza di sé, lo trasforma in un utile compagno di viaggio. Il dolore è un amico (come traspare nella lingua ebraica), una bussola che ci permette di correggere la rotta del lungo viaggio della vita. Gli esempi più eclatanti si vedono proprio sul corpo fisico che, come diceva il Buddha, conosce la verità: cioè, conosce ogni tipo di verità, non solo quella metabolica o fisiologica, ma anche quella della nostra evoluzione, dei movimenti del cielo, degli elementi della natura che ci compongono, dei talenti che portiamo in dote alla nascita e di tutto ciò che ancora ignoriamo di noi. Il corpo fisico non mente mai, per cui è la porta privilegiata aperta sulla nostra verità, sul nostro equilibrio, sulla nostra salute, sui movimenti dell’anima e della spiritualità. Il corpo fisico è anche il solo mezzo per raggiungere alti livelli di coscienza.
Leggere libri, crearsi una cultura scientifica o umanistica profonda, dibattere e confrontarsi sono ottimi strumenti per avviare il lavoro, ma se tutto questo non è accompagnato dall’esperienza corporea, allora diventa inconsistente, non ottiene il risultato sperato: cioè, non è capitalizzabile. Persino le terapie, allopatiche o naturali che siano, non producono il loro massimo effetto se non accompagnate da una costante attenzione alle modificazioni che avvengono nella struttura psicosomatica, di cui siamo dotati durante la loro azione. Delegare al medico o al farmaco tutto il lavoro della guarigione è un grave errore di valutazione. Il lavoro va fatto col medico e col farmaco, altrimenti assisteremo a una lunga e tormentosa serie di insuccessi.
Altro elemento da rimuovere immediatamente dai fondamenti della cultura occidentale è la convinzione che esista una separazione tra mente e corpo, tra visibile e invisibile, tra pensiero e funzione somatica. Nonostante questo sia un concetto ribadito più volte a tutti i livelli della cultura in tutto il Novecento, sembra non essere entrato ancora negli strati più profondi dell’animo umano. Sulla carta, tutti lo hanno scritto milioni di volte, citando Cartesio (res cogitans e res extensa) da una parte e Jung (simboli della trasformazione) dall’altra, ma quanti hanno dedicato venti minuti al dì per farne esperienza tramite gli esercizi di un’arte sacra come lo Yoga, il Qi Gong o la meditazione?
Col tempo, la serietà e la serialità della pratica producono un effetto straordinario sulla percezione del mondo, dell’evoluzione e, forse, dell’intero universo. Se leggiamo attentamente Rudolf Steiner, ci accorgiamo che tutta la storia che ci ha portato fino a qui, al contrario di quanto è scritto sui testi scolastici, si basa su premesse diametralmente opposte a quelle che ci propone il pensiero scientifico. La verità è che, nello stato di veglia reale, nei rari momenti di risveglio che regala la pratica meditativa, ci si accorge che la vita ordinaria ci appare esattamente al contrario di ciò che è. Questo terrorizza colui che sperimenta questa esperienza, ma, per contro, gli regala una consapevolezza alla quale non potrà più rinunciare per tutto il resto dei suoi giorni: cioè, una volta vista la struttura gerarchicamente sottile delle cose, sarà molto difficile negarne l’esistenza. Chiunque abbia incontrato un vero sciamano – e non un ciarlatano che frequenta i salotti televisivi – oppure un vero veggente o un grande mago, rimanendone ovviamente segnato, difficilmente potrà ignorare quell’esperienza per il resto della vita. Chi ha potuto vedere una guarigione inspiegabile, magari proprio su se stesso, non potrà dimenticarla mai. Quando vediamo e quindi accettiamo il miracoloso, siamo pronti a produrre un atto poetico e creativo.
Quando cominceremo a domandarci se sia più corretto somministrare un rimedio – naturale o allopatico – alle dieci del mattino o alle sei di sera o se sia meglio darlo martedì e venerdì piuttosto che mercoledì e sabato, non saremo impazziti, ma solo entrati in una dimensione più allargata di coscienza, in cui la vista corta del pragmatismo ordinario sta lasciando il posto al gesto poetico. Allora non ci sembrerà folle mettere in relazione i disturbi della testa col segno dell’Ariete, quelli dell’addome con quello della Vergine e quelli del petto col segno del Cancro, perché sentiremo che quelle corrispondenze appartengono a una dimensione analogica che non ha mai abbandonato l’uomo e il suo destino, perlomeno dall’inizio delle origini della coscienza. Sentiremo profondamente vera la relazione tra lunarità e cervello e comprenderemo che, nonostante la grande fama di cui gode nella nostra epoca, quest’organo – tra le sbornie delle neuroscienze – non potrà mai governare da solo le nostre scelte, perché, come la luna, non produce luce propria; esso, per risplendere, necessiterà sempre di una solarità. Il cervello può soltanto “riflettere” e quello che fa il cervello, appunto, è riflettere.
Spesso le nevrosi sono riflessioni che hanno perso totalmente rapporto con la realtà: esse si generano da pensieri svincolati da qualsiasi volontà e producono a cascata eventi emozionali dannosi e inutili che possono mettere un individuo in ginocchio per anni. Il cervello non coincide affatto con la mente: è solo l’interfaccia visibile tra mente inferiore e mente superiore. Il cervello non è tutto, non è la terra di confine, ma è un epifenomeno di qualcosa di misterico che non è sondabile coi sensi comuni e soprattutto con la ricerca scientifica.
Se credete che sia facile liberarsi dal giogo perverso delle riflessioni cerebrali che prendono corpo nei pensieri, provate a mettervi in rilassamento e meditazione e ne sperimenterete la diabolica capacità intrusiva e parassitaria.
Per praticare l’ascolto attivo, come vedremo, bisognerà aver conquistato un buon livello di distacco dai conflitti che si animano nel nostro interno; dovremmo essere sordi a quella tendenza al giudizio che ci fa dividere le cose del mondo tra quelle che ci piacciono e quelle che non ci piacciono. Soprattutto dobbiamo uscire dalla trappola diabolica che ci fa credere che soltanto le cose che ci piacciono possano andare in accordo col nostro benessere. In realtà, non è mai così e c’è una ragione molto sottile per cui accade ciò: mettersi ad ascoltare il corpo è un lavoro che nessuno vuole fare. Le malattie metaboliche sono l’espressione tangibile di un’assenza di volontà di contatto e di ascolto del corpo. Le persone sono di solito indaffarate a fare tutt’altro, reputandolo indispensabile, mentre il corpo vive un profondo conflitto che viene assolutamente ignorato. Questo è quanto mai visibile nei problemi alimentari, dove l’individuo è sempre “altrove” mentre avviene un crimine metabolico dentro di sé.
Questa è un’epoca del tutto devota al culto del benessere, ma anche a quello del “tutto e subito” e questo con l’anima e con l’ascolto interiore non ha niente a che fare.
Tutto avviene come se nel benessere fosse celato il segreto della felicità, come se potesse coincidere con essa. Questo è l’errore più grande che si possa compiere in vita: lo sanno bene tutte le scienze spirituali e la psicanalisi.
Il culto del benessere non ha nulla a che fare col “buon-essere”, non ha nulla a che fare con la serenità e soprattutto non ha nulla a che fare con la verità che dimora dentro di noi. Se è assodato che la verità, nel mondo civile, si è occultata dentro di noi, non sarà in una beauty farm o in una clinica del benessere olistico che la ritroveremo: anzi, in quei luoghi troveremo l’ennesimo escamotage per poterci addormentare tra il piacere dei sensi e seppellire ancor di più la verità che cerchiamo. Se il nostro fine è il benessere, allora la pratica dell’ottundimento va benissimo. Se il nostro fine è un viaggio verso la verità, possiamo farlo anche cambiando la gomma bucata dell’auto.
Non è forse meglio risvegliarci alla realtà con la R maiuscola?
Allora la vera scelta dovrebbe essere quella di accettare di ricominciare, di abbandonare ciò che pensiamo di essere per diventare ciò che siamo. Questo non passa attraverso il culto del benessere, ma attraverso un doloroso lavoro alla fine del quale, però, verrà dato il premio più alto: essere.
Raffaele Fiore
Dal libro Creatività Medica (Anima Edizioni)
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stupendo!Di grande alimentazione mentale x gli stati di fatto !