Quando non ti lasciavi ancora prendere

È passato molto tempo da quando tu e io eravamo liberi. Era addirittura prima del tempo… Allora vivevamo, tu e io, senza farci insegnare nulla (Igor Sibaldi)

 

RALLEGRARSI: dalla radice europea *al-, «alzare», «tener alto», per esempio tener alta la testa, o l’attenzione.

È passato molto tempo da quando tu e io eravamo liberi.

Era addirittura prima del tempo – dato che, come vedremo, anche il tempo è una prigione.

Allora vivevamo, tu e io, senza farci insegnare nulla. Non ci sarebbe mai venuta l’idea che qualcuno avesse qualcosa da insegnare a qualcun altro. Avevamo soltanto una gran voglia di scoprire, e scoprire era semplice: bastava accorgersi.

E non finiva mai.

Avevamo un orizzonte completamente sgombro: non c’erano posti in cui non si poteva guardare. Non ce n’erano intorno, non ce n’erano nei nostri corpi, non ce n’erano nemmeno dentro di noi.

Forse ci ricordavamo – essendo nati da poco – di quando potevamo guardare, ascoltare, assaggiare, annusare con tutto, e non attraverso gli appositi buchi che abbiamo davanti e ai lati del cranio, e potevamo toccare con tutto, invece che con la pelle.

Ma esserci ritrovati dentro un corpo non era un gran problema, ci stavamo adattando bene e, soprattutto, era anche quello un modo di scoprire. Così, ci piaceva essere capitati in un posto tanto interessante, la vita, in cui tutti stavano sicuramente esplorando, come noi, innumerevoli possibilità, ciascuno per suo conto. Così credevamo. E siccome eravamo dispostissimi a rallegrarci delle loro scoperte, pensavamo che anche loro si sarebbero rallegrati delle nostre.

Invece, quei molti altri incominciarono a insegnarci.

 

Adesso che sei tu

INSEGNARE: dal latino signare, «segnare», «fissare», «marchiare», e da in-, «dentro».

La prima cosa che ci insegnarono fu la loro idea di «io» – e fu la nostra prima prigione. Ci fecero dire «io» e vollero che fossimo degli «io».

Il tuo «io», per loro, è quella parte di te a cui loro si rivolgono, e che è solo una piccola parte di ciò che sei. Loro esigono che tu non sia altro, e che tu sappia di non essere altro.

All’inizio, naturalmente, è impossibile. Vedono in te un bambino – cioè quello che loro pensano che sia un bambino: un esserino incapace di capire e di comunicare. E tu devi diventare quell’esserino.

«Perché fanno così?» ci chiedevamo.

E provavamo a spiegare che in realtà stavamo capendo moltissimo, e che comunicavamo incessantemente, con ogni parte del nostro corpo e con ciò che irraggiava dalla nostra psiche. Ma non c’era niente da fare. Erano incapaci di accorgersene. Se se ne fossero accorti si sarebbero meravigliati, ma non volevano meravigliarsi. Volevano solo insegnare.

Capimmo, e cominciammo ad adeguarci. Per qualche tempo fu solo un adeguamento esteriore: ti ricordi che usavi quella parola, «io», sapendo di non parlare di te, ma solo di quello che credevano loro? Non era difficile mentire così. Ma il loro insegnarci diventava sempre più insistente, ci rinchiudeva in quel piccolo «io», e ci lasciammo chiudere lì.

 

Igor Sibaldi

Estratto dal suo libro Prigioni – Le pene collettive (Anima Edizioni)

Libro-Sibaldi-Prigioni

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