Perseguitato ed esiliato, il popolo tibetano è un esempio culturale. Genocidio e dispersione non hanno determinato né odio, né sete di vendetta, né risentimento. La sua tragedia può ora diventare una vittoria…
Nell’attuale situazione di generale disagio, una bussola per l’orientamento è la comunità tibetana in esilio. I tibetani non uccidono, non spacciano droga, non costituiscono associazioni criminali, non conoscono la depressione, l’ansia, la disperazione. La ragione della loro vita è tutta nella realizzazione spirituale. Hanno accettato la più terribile delle condanne, e cioè il genocidio e la dispersione di un popolo intero e di una cultura millenaria, senza odio o sete di rivincita.
I tibetani suscitano l’ammirazione e la curiosità di tutto il mondo. L’unico modo per far sopravvivere la loro realtà è creare innumerevoli centri buddhistimahayani sul modello di San Giorgio degli Armeni a Venezia, come isole al riparo dalle barbarie civilizzatrici. Si è costituito un comitato di monaci Gelugpa e di teosofi con il sogno di insediare in un’area vergine del territorio italiano una realtà tibetana ove le tradizioni architettoniche, artistiche, culturali e religiose siano conservate.
Di questo progetto abbiamo i disegni del lhakhang (monastero) che sarà il centro della comunità. In questa fase iniziale tutte le persone di buona volontà e con un pizzico di follia sono invitate a partecipare all’iniziativa. Molti monaci vivono già in Europa, e molti altri in India cercano nuove patrie pronte ad accoglierli. Dopo l’esilio del 1959 i tibetani hanno fatto enormi sforzi per salvare il salvabile della loro identità. Ora, creando una rete mondialemahayana, possiamo trasformare una sconfitta culturale in una vittoria dilagante. Solo così il popolo e la cultura tibetana si salveranno dall’isolamento e dall’assorbimento in altre culture come i cinesi vorrebbero accadesse loro..
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