Iniziamo oggi una nuova avventura dedicata al “viaggio iniziatico” di un piccolo “ribelle”: una favola in tre puntate, che anima.tv metterà in onda ogni 15 giorni.
PROLOGO
La pedagogia ha dimenticato il valore dei riti di passaggio. Celebrazioni simboliche e atti psicomagici delle più importanti tappe di crescita: la moderna civiltà occidentale ne ha quasi cancellate le tracce. Questi riti comprendevano anche vere e proprie iniziazioni. La fiaba del post è, come dal titolo, il viaggio iniziatico di un bambino, all’età del suo ingresso nella fanciullezza. Come in ogni iniziazione, il protagonista attraversa le fasi del percorso: l’allontanamento, quando si perde nella foresta; il sentirsi impreparato ad affrontare ciò che lo aspetta e quindi la paura; il sospetto che, sotto l’apparenza di eventi funesti (le tre belve che lo rincorrono nel buio), si mascheri invece una forza benefica. Poi, la comprensione di quello che accade grazie al potenziamento delle sue percezioni, e la successiva morte rituale, simboleggiata dalla notte che il fanciullo trascorre nel bosco. Infine l’ammaestramento, quando inizia a comprendere chi è veramente, e la rinascita del cambiamento. Un cambiamento quasi di personalità, come premio per la conquista della fede in se stesso e della fiducia nei doni che lo caratterizzano come individuo unico. La via della crescita, intesa in senso globale.
VIAGGIO INIZIATICO DI UN PICCOLO RIBELLE
Ariel era un bambino di sette anni, ribelle e testardo. O almeno così lo giudicavano. In classe, durante le lezioni, si annoiava a morte, e non ce la faceva proprio a stare fermo. Nemmeno zitto, perché spesso se ne usciva con frasi e commenti ritenuti fuori luogo. Era come se parlasse una lingua che nessuno capiva: non la capivano papà e mamma, né la maestra, e a volte – che tristezza! – nemmeno i suoi compagni. L’insegnante chiamava spesso i genitori del tanto indisciplinato alunno, per lamentarsi di lui. E durante quegli incontri imbarazzanti con la maestra, loro si vergognavano di avere un figlio diverso dagli altri bambini. Puntualmente Ariel era sgridato dalla madre e punito dal padre. Questo accadeva in media due volte a settimana.
Anche dentro casa il ragazzino si comportava da peste, ma solo perché non poteva obbedire alle imposizioni, se queste gli sembravano stupide! Cosa c’era d’interessante nei compiti di scuola, nelle partite di calcio alle quali doveva partecipare per volere del padre o alla messa della domenica che gli imponeva sua madre? Che noia studiare la storia, cose accadute in un lontano passato; che barba le poesie, stati d’animo di sconosciuti dei quali non gli importava niente. E che strazio certe gite ai musei!
Amava la chimica, quella sì, ma i suoi interessanti esperimenti erano pericolosi e sporcavano troppo la casa, a detta della mamma. Gli piacevano anche la botanica e la zoologia, ma non come le insegnavano a scuola: lui studiava la prima annusando i fiori, accarezzando le foglie e abbracciando gli alberi. E studiava gli animali osservandoli in silenzio, o dialogando con loro tramite il pensiero: in quel modo gli rivelavano molte più cose di quelle che avrebbe saputo se avesse studiato a menadito tutti i nomi assegnati alle loro specie e famiglie zoologiche.
Un giorno la mamma lo portò dal dottore. Ariel non ne capiva il motivo, si sentiva in perfetta salute. Il medico però non aveva intenzione di curare il suo corpo, ma il suo cervello! Dopo tante domande da parte del curioso personaggio in camice bianco, capì che si trovava nei guai a causa dell’etichetta di bambino cattivo: aveva appiccicato addosso quel marchio come la stella di David degli ebrei ai tempi dell’olocausto!
Ariel era un tipo sveglio; capiva al volo cosa si aspettavano gli altri da lui, ma da vero disobbediente non voleva piegare la sua volontà. Tuttavia, quella volta diede le risposte che l’uomo si aspettava, quelle cosiddette “giuste”. Come un saggio guerriero, pensò che fosse meglio giocare d’astuzia invece di combattere, perché la situazione si presentava complicata. «Se l’avversario è più forte di te, o tu sei solo e i nemici numerosi, non puoi vincere con la forza, ma con l’ingegno…» Dove aveva letto queste assennate parole?
Una volta finita la visita, dalla sala d’aspetto oltre la porta chiusa sentì il dottore dire alla mamma che era un bambino intelligente e sano, soltanto un po’ troppo vitale. Quindi avrebbe dovuto assumere una medicina.
«Che strano» pensò Ariel in quel momento. «Credevo che la vitalità fosse una cosa buona». Evidentemente no, non era una cosa buona per gli altri, che la volevano curare come una malattia!
Dal giorno seguente Ariel cominciò la sua battaglia; anzi, continuò a lottare più duramente, perché oltre ai tanti guai che aveva già, ora doveva escogitare un modo per non ingoiare quelle pillole che la mamma gli portava ogni sera. Decise ancora una volta di fare buon viso a cattivo gioco e simulare una resa alla terapia antifelicità. Imparò a sorridere mentre fingeva di deglutire e, non appena la mamma lasciava la stanza, a sputare e nascondere la pastiglia dentro il suo lupetto di stoffa.
Sentiva di essere solo contro il mondo intero: nessuno lo capiva e doveva persino difendere la propria salute! Diventò taciturno, distante; cominciò a sentirsi come un profugo, uno straniero malvisto, un alieno precipitato per disgrazia sul pianeta Terra. La nuova identità sembrava piacere a tutti: tutti erano contenti e tutti pensarono che la terapia avesse funzionato. Nessuno capì che quella di Ariel era invece una profonda tristezza.
«Forse sono davvero cattivo!» Quel brutto pensiero faceva precipitare il ragazzo nel peggiore degli abissi: la perdita della fiducia in se stesso.
Continua
Grazia Catelli Siscar
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