Il premio per essere diventato, agli occhi del mondo, “un bravo bambino” fu una bella gita nei boschi, una merenda in collina con mamma e papà. Quel giorno il cielo era limpido e azzurro e l’aria profumava delle cose buone che la mamma aveva cucinato. Ariel mangiava in fretta la sua porzione di torta salata agli spinaci, seduto sulla coperta scozzese distesa nell’erba. Non vedeva l’ora che tutti finissero lo spuntino, così da iniziare al più presto l’escursione. Si era portato un quadernetto e matite colorate, come un vero esploratore, per disegnare le cose più interessanti che avrebbe visto: qualche fiore sconosciuto, o una buffa marmotta, o magari un albero molto antico, o chissà… forse una creatura magica!
I genitori continuavano a conversare tra loro di argomenti noiosissimi: gli eterni problemi del papà sul lavoro e le discordie della mamma con un collega. Insomma, uffa, quella gita era per lui! Perché nessuno se lo filava?
All’ennesima richiesta di attenzione ignorata, Ariel – deluso – lasciò il picnic. Mentre raccoglieva qualche sasso di forma piatta da lanciare nel lago poco distante, vide uno scoiattolo e gli corse dietro. I genitori erano talmente presi dalla loro discussione che non si accorsero di niente. E Ariel, correndo divertito dietro l’animaletto che saltava da un albero all’altro, non si accorse di quanto ormai fosse lontano.
Quando rallentò la corsa, aveva il fiato grosso, lo scoiattolo sembrava sparito e lui si era perso. Come avrebbe fatto a tornare indietro? Quali tremende punizioni gli sarebbero toccate questa volta? E soprattutto, quanto tempo era trascorso? Il crepuscolo già si annunciava dipingendo di arancio e cremisi il cielo.
Nel frattempo, i genitori si aggiravano nel bosco alla ricerca di Ariel e gridavano a gran voce il suo nome, ma lui era troppo lontano e non poteva sentirli. La loro preoccupazione cresceva di minuto in minuto perché temevano che fosse scivolato nel lago. «Come ho fatto a perderlo di vista?» gridava la mamma in lacrime. «Non ne posso più di questo figlio ribelle!» dichiarava il padre con toni severi per nascondere la sua angoscia.
Perduto nel bosco, Ariel si sentiva sempre più solo e spaventato. La vegetazione pareva uguale in tutte le direzioni e vedeva solo alberi e fronde; non sapeva proprio come orientarsi per trovare la strada del ritorno. Le nozioni scritte sul libro che aveva tanto desiderato a Natale, Il giovane esploratore, per il momento non gli servivano a niente. Non aveva lasciato tracce, come per esempio incidere segni sulla corteccia dei tronchi, o legare pezzi di stoffa ai cespugli, o anche seminare sassolini dietro di sé. Non lo aveva fatto perché era corso dietro allo scoiattolo guardando in su, verso il roditore che saltava da un ramo all’altro a quattro metri d’altezza.
Decise di prendere una direzione a caso, giusta o sbagliata che fosse: la sera scendeva rapidamente e ormai era un’ombra scura che lo inseguiva, sempre più minacciosa. La sentiva muoversi dietro di lui, guadagnare terreno a ogni suo passo. Finché giunse la notte, nera come non l’aveva mai vista. Faceva così buio che avrebbe potuto inciampare o cadere in qualche buca, quindi si accucciò sotto la chioma di una quercia, assetato, impaurito e stanco. Desiderava chiudere gli occhi e dormire. Magari al suo risveglio i genitori lo avrebbero trovato, e tutto sarebbe finito per il meglio; dopo una severa punizione, naturalmente! Tuttavia, dormire in quel luogo oscuro, immerso in un silenzio pieno di presenze, non sembrava possibile.
L’udito di Ariel era teso al massimo: avrebbe sentito camminare persino una formica. Chissà quali feroci animali popolavano il bosco! E proprio allora, proprio mentre l’inquietante pensiero attraversava il suo cervello, un ruggito poderoso scosse la quiete della notte. Si schiacciò contro l’albero, i capelli rizzi dallo spavento e tutti i sensi allertati: annusava l’aria per sentire l’odore della creatura, tendeva l’orecchio ai suoi passi sul terreno, aguzzava la vista per vederlo arrivare.
In preda al terrore, il bambino ascoltava il fruscio dell’erba sfiorata dall’animale e il suo rantolo sempre più vicino. Tastò con le mani la terra intorno per trovare un bastone e difendersi da quello che, ormai era certo, sarebbe stato un attacco mortale. E se fosse davvero morto? Sbranato, lì in quel bosco, da una belva affamata? Chissà se qualcuno avrebbe pianto al suo funerale, o piuttosto avrebbe detto cinicamente che se l’era meritata quella fine, perché era un ragazzino disubbidiente e cattivo! Tali pensieri non gli erano certo d’aiuto, così provò a scacciarli e, armato di un robusto ramo che era riuscito a trovare, fece un balzo fulmineo e cominciò a correre.
Corse a perdifiato, completamente al buio, più forte che poteva, mentre rami e fronde invisibili lo percuotevano e lo ferivano al volto, alle mani, alle gambe. Il respiro ansimante della bestia sembrava avvicinarsi, il rumore attutito delle sue zampe, che battevano la terra coperta di muschio e foglie, era a un passo da lui.
Nel delirio della fuga inciampò in una grossa pietra e rovinò a terra. In quel momento sentì un grido stridulo, e un fruscio d’ali sfiorò la sua testa. Si rialzò subito e riprese a correre, ma in un’altra direzione, con la speranza di sfuggire ai predatori.
Poi accadde l’impensabile: il grugnito terrificante di un terzo essere squarciò l’aria, proprio davanti al bambino, e tanto cavernoso da far pensare a una creatura gigantesca. Ariel schiacciò i talloni sul terreno, e nella brusca frenata cadde all’indietro. Accerchiato frontalmente, alle spalle e a sinistra, scappò nell’unica direzione possibile, unica risorsa di salvezza, quella che nella linea del tempo indica il futuro: la destra.
Quando ormai credeva che gli sarebbe scoppiato il cuore per la folle corsa e per il terrore, sbucò in una radura, dove il tetto di rami era meno fitto e si vedeva il cielo. La pallida luna aveva il colore del peltro e colorava di luce turchese lo spiazzo erboso e l’aria. Si lasciò cadere stremato sul mare azzurro d’erba, con gli occhi rivolti al bosco, perché temeva di veder balzare allo scoperto le tre bestie che lo avevano inseguito. Ma le creature sembravano scomparse.
Forse non potevano seguirlo fino alla radura… o forse chissà, non erano male intenzionate e lo avevano spinto a bella posta fuori dal buio. Sembrava un’idea folle, tuttavia – a pensarci bene – quelle belve avrebbero potuto acchiapparlo e divorarlo quando volevano; lui era solo un bambino e non riusciva certo a correre più forte di una fiera, né più veloce di un uccello, o di un mostro gigantesco! L’intera faccenda era proprio misteriosa!
Continua
Grazia Catelli Siscar
Credits Img: Pinterest..
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