«Finisci la colazione, devo accompagnarti a scuola e si sta facendo molto tardi! Ehi, mi ascolti?»
No, Matteo sembrava proprio non ascoltare le parole di suo padre. Quel giorno era distratto; giocherellava con tazza e cucchiaio perdendo tempo, assorto in chissà quali pensieri.
«Qualcosa non va figliolo?» chiese il genitore, sperando questa volta di far scendere suo figlio dalle nuvole. Ma niente da fare, non c’era verso, Matteo continuava a rigirare il cucchiaino con lo sguardo perso nel vuoto.
«Base operativa terrestre chiama pianeta Ciribicchio!»
La fantascienza funzionava sempre nei casi estremi, quando la mente del ragazzo vagava troppo lontano per essere raggiunta in altri modi.
«Papà» rispose finalmente Matteo. «Mi chiedevo se… devo aver paura del mostriciattoli invisibili che fanno ammalare le persone?»
L’uomo rimase in silenzio per un po’; doveva trovare la risposta giusta, sapeva che Matteo non si sarebbe accontentato di una spiegazione qualunque, o superficiale, o poco chiara. Infine gli venne un’idea.
«Vieni con me» disse; quindi si fece seguire fino alla camera del bambino, aprì il baule dei giochi e prese una scatola. Quella vecchia scatola di legno custodiva giocattoli della sua infanzia, consegnati al figlio come una preziosa eredità quando Matteo aveva compiuto quattro anni. C’erano biglie in vetro, modellini di automobili, soldatini, raccolte di figurine e il sacco delle meraviglie, come lo aveva soprannominato il papà da bambino, cioè un sacchetto di velluto azzurro che conteneva una calamita e piccoli cubi in ferro colorati.
Il papà amava dare nomi speciali alle cose. Così l’attaccapanni dell’ingresso era diventato il signor Gastone perché quando gli si poggiavano sopra un cappotto, un cappello e il bastone del nonno, sembrava prender vita, e diventare l’impettito snob di quel vecchio motivo che ne cantava le gesta. Il giorno in cui uno dei bracci si ruppe, mentre il padre lo aggiustava con un po’ di colla e nastro adesivo, a Matteo sembrò di vedere un ortopedico che ingessa un arto al suo paziente. Il frigorifero era mister Trangugio perché, nonostante un rifornimento quotidiano da parte della mamma che faceva la spesa tutti i giorni, il cibo spariva alla velocità della luce come se fosse lui – il frigo – a mangiarselo d’un boccone! Ogni qualvolta entrava in casa un nuovo acquisto, che si trattasse di un mobile o un oggetto o un elettrodomestico, tutti aspettavano quasi in religioso silenzio che papà ne decidesse il nome, per poi ridere di gusto perché l’appellativo si rivelava infine sempre azzeccato, e naturalmente molto buffo! Potremmo dire che non c’era stanza o angolo della casa che non avesse una sua caratteristica e un proprio nome; una consuetudine molto divertente di quell’amabile famiglia.
«Adesso guarda bene». Il tono del papà sembrava quello di un prestigiatore prossimo a compiere una magia. Sistemò i blocchetti di ferro in cerchio sullo scrittoio poi, indicandoli uno a uno, disse: «Questo di colore arancio rappresenta l’allegria. Questo azzurro la felicità, quello verde la salute, il rosso la forza, il marrone la malattia, e facciamo che il nero sia la paura».
Matteo seguiva il discorso con estrema curiosità. Ora sì che il padre aveva catturato la sua attenzione!
«Adesso metto la calamita, al centro; questa sei tu. Guarda cosa accade».
Ovviamente, non appena la calamita fu appoggiata dentro al circolo formato dai cubetti in ferro, li attirò tutti a sé. Il ragazzo non era stupito, conosceva l’effetto magnetico delle camite sul ferro. Si chiese dove volesse arrivare il papà con quella dimostrazione.
Poi l’uomo separò i cubi dal magnete e li riposizionò in un cerchio molto più largo; quando appoggiò di nuovo la calamita, questa volta era più lontana dai cubetti di metallo e adesso non succedeva niente, tutti i pezzi rimanevano al loro posto. Quindi spiegò:
«Tu, come ogni essere umano, sei un magnete potente e puoi attrarre qualunque cosa, buona o meno buona, bella o brutta, desiderabile o indesiderabile; il segreto è la distanza. Come la calamita del gioco, se non vuoi attrarre il cubetto nero della paura, devi tenere la distanza giusta: devi mantenere la paura il più lontano possibile. Questo significa che più avrai paura, più sarai vicino alla paura e l’attrarrai a te. Allo stesso modo, più ti avvicinerai alla gioia, più gioia attirerai nella vita, o felicità, o forza.
L’esempio pratico era stato illuminante e il ragazzo non vedeva l’ora di mettere alla prova l’efficacia di cotanta magia. Anzi, poteva fare un esperimento quella mattina stessa: c’era un bullo nella sua classe che aveva preso di mira proprio lui, e lo tormentava tutti i giorni durante la ricreazione. Mentre il padre guidava l’automobile in direzione della scuola, Matteo ripeva come un mantra: ”Io non ho paura, io non ho paura, io non ho paura”.
Tuttavia, una volta sceso, salutato il genitore e fatto i primi passi sul viale dell’edificio scolastico, vide in lontananza il terribile ragazzino, e il mantra andò a farsi benedire. Deglutì più volte mentre le sue mani si serravano a pugno in un istintivo gesto di rabbia. Aveva davvero una gran voglia di prenderlo a pugni quel bulletto!
Ma ecco che una repentina e brillante intuizione si accese a quel punto nella mente di Matteo: se la rabbia che provava era causata dalla paura, e se voleva allontanare da sé stesso la paura, forse avrebbe dovuto per prima cosa disfarsi della rabbia. Allora distese le mani, prese un respiro profondo e provò a richiamare un’immagine divertente, qualcosa di buffo, perché il contrario di un muso accigliato è un volto che sorride. Come già sappiamo, la famiglia aveva abituato Matteo fin da neonato a vedere il lato divertente delle cose. E a proposito di neonati, la prima cosa buffa che gli venne in mente fu la serie di smorfie nella quale si esibiva il padre ogni volta che cambiava il pannolino puzzolente di suo fratello minore. Appena la memoria ricostruì le immagini di quel ricordo esilarante, Matteo scoppiò a ridere. E più rideva più il ricordo si faceva vivido e gli provocava risate incontenibili, o come si suol dire, risate a crepapelle!
Il bullo nel frattempo si stava avvicinando, e fu spiazzato dalla reazione della sua vittima; così, quando Matteo vide in primo piano l’espressione sorpresa dell’aguzzino, la trovò irresistibilmente assurda, incredibilmente comica, insomma da tenersi la pancia con le mani! Quello che accadde, alla fine dei conti, fu che Matteo rise letteralmente in faccia al dannato sbruffone, togliendogli in quel modo tutto il potere, o meglio il millantato potere.
E a quel punto la situazione si era sgonfiata, il bulletto aveva perso la voglia di fare il bulletto e Matteo aveva perso la paura. Continuando a sghignazzare tirò dritto fino all’entrata della scuola, certo che da quel giorno le cose sarebbero cambiate.
Se poteva vincere la paura della prepotenza altrui allontanandola da sé come la calamita dal cubetto nero, forse poteva vincere anche la paura del buio che certe notti lo teneva sveglio, e quella per i microbi, e per chissà quante altre cose.
Non vedeva l’ora di tornare a casa e raccontare tutto ai suoi genitori; adesso però era suonata la campanella, e doveva prestare attenzione alla maestra se non voleva avere a che fare in seguito con la paura di ricevere un brutto voto!
Grazia Catelli Siscar
Autrice dei libri
Immagini fornite dall’autrice, raccolte in rete.
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