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06. IL VERBO DEGLI UCCELLI. UNA FIABA ESOTERICA SUFI

Il verbo degli uccelli è una grande favola esoterica scritta da Attār, filosofo e mistico sufi, che narra il viaggio compiuto da uno stormo di oltre diecimila uccelli, guidati dall’upupa, alla ricerca del loro sovrano, il Simorgh (la Fenice).

La scelta degli uccelli come animali protagonisti non è casuale; essi rappresentano l’animale terrestre che può sollevarsi fino al cielo, così come l’anima dell’uomo è in grado di innalzarsi dalla Terra verso il divino. Il “linguaggio degli uccelli” inoltre era, nella mitologia mistica e medievale, la lingua perfetta con cui gli uccelli comunicavano agli iniziati; non a caso ne I fioretti di San Francesco si legge che Francesco d’Assisi predicò agli uccelli, episodio spesso raccontato ai bambini come una semplice storiella, ma che in realtà nasconde un significato mistico molto più profondo.

Dopo aver elencato i vizi da abbandonare per intraprendere il viaggio, l’upupa descrive le sette impervie valli da percorrere per giungere alla montagna sacra dove stanzia il Simorgh, ossia la valle della ricerca, dell’amore, della conoscenza, dell’indipendenza (o perdita), dell’unità, dello stupore e della povertà (o annientamento). La descrizione di ciascuna valle è intervallata da brevi racconti allegorici, la cui morale ribadisce il concetto esplicitato precedentemente.

Il viaggio è lungo e impervio, e molti uccelli cadono sul cammino; grande metafora del sentiero spirituale, che non è mai retto e semplice ma sempre lungo, tortuoso, ricco di insidie, che soltanto pochi alacri viaggiatori riescono a percorrere senza smarrirsi.

Al termine del viaggio, soltanto trenta uccelli giungeranno a destinazione, e a essi verrà rivelata una grande verità: il Simorgh sono loro stessi.

L’opera è una grande metafora del rapporto tra uomo e Dio. Le sette valli da percorrere sono i sette stati che il sufi deve metaforicamente attraversare per giungere alla conoscenza del divino. Benché il Simorgh siano sempre stati loro, tuttavia non avrebbero mai potuto scoprirlo senza intraprendere la fatica del viaggio; è il viaggio stesso ad averli resi Dio, ad aver agito da maieuta per dar fuoco alla loro scintilla divina interiore, dando fuoco alle loro penne come a quella dell’araba fenice.

L’immagine data da Attār rasenta il panteismo; i trenta uccelli scoprono di essere loro stessi il Simorgh, così come l’anima che segue i precetti di Attār s’immedesima totalmente nella divinità, abbattendo la barriera dell’Io e dissolvendosi nell’Infinito.

Un Dio che non è afferrabile né con la logica né con il ragionamento; come lo stesso Attār nell’introduzione de Il verbo degli uccelli scrive: “[Per trovare l’Essere senza pari visibile e invisibile, n.d.R.] Non puoi fare niente, dunque non cercare niente. Tutto ciò che dici non è ciò che occorre, dunque non dire niente. Ciò che dici e ciò che sai è ciò che sei, ma devi conoscere Dio attraverso Lui e non attraverso te; è lui che apre la strada che conduce a Lui, non la saggezza umana” e ancora “Ciò che gli uomini ne hanno detto, lo hanno detto da se stessi” (Attār, Il verbo degli Uccelli, Edizioni Mediterranee, 2002 Roma, pp. 23)

Il culmine dell’esperienza mistica con la quale è possibile unirsi al divino si ha quando l’uomo comprende che “In questo Oceano immenso il mondo è un atomo e l’atomo è un mondo. […] il mondo è una bolla d’acqua di questo Oceano e […] l’atomo è identico alla bolla”, frase che ricorda molto i versi di William Blake:

“Vedere un mondo in un grano di sabbia/ e un universo in un fiore di campo,/ possedere l’infinito sul palmo della mano/ e l’eternità in un’ora.”

Ed è proprio il poeta inglese che riassume alla perfezione il pensiero di Attār; l’unico ostacolo che blocca la strada verso il divino siamo noi stessi e per superarlo dobbiamo solo infrangere la barriera dei nostri sensi, infatti “Se le porte della percezione/ fossero sgombrate/ ogni cosa apparrebbe com’è: infinita.”

Daniele Palmieri

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