Navigando nelle infinite possibilità dell'essere

01. LO GNOMO BELLISSIMO

C’era una volta un papà che aveva promesso al suo bambino di leggergli una favola. Tuttavia i libri di favole che possedeva il piccolo Benvenuto erano già stati letti e riletti infinite volte. Così, quel giorno, il papà decise di recarsi con il figlioletto a comprare un libro di fiabe nuovo di zecca. La mamma li salutò dalla finestra agitando il mestolo di legno; stava preparando una torta di ciliege che li avrebbe accolti – deliziosa – al ritorno. Benvenuto, che tutti chiamavano Ben, era molto eccitato mentre papà avviava l’automobile; quella sera stessa avrebbe potuto viaggiare con la fantasia. Niente lo rendeva più felice di ascoltare il padre o la madre che recitavano per lui, di pagina in pagina, storie fantastiche. Vedeva scorrere le immagini piene di colori, e i personaggi prendere vita dietro i suoi occhi chiusi. Poi si addormentava, ed ecco la magia: ancora più straordinaria e colorata, l’avventura continuava nei suoi sogni.

«È lontana la libreria papà?» Ben saltellava impaziente sul sedile posteriore, anche se aveva la cintura di sicurezza.
«Sì, un poco lontano, ma ne vale la pena. È grande sai? La più grande che abbia mai visto».
Mano a mano che scorreva il tempo, il panorama si faceva sempre meno familiare; Ben considerò che stavano viaggiando già da un pezzo, quindi chiese al padre: «Ci siamo persi?»
«No figliolo, non preoccuparti».
I papà non si perdono, casomai fanno giri più lunghi per esplorare il territorio, per questo motivo di solito non si fermano a chiedere informazioni sulla strada.

All’improvviso scoppiò un temporale. O forse si trattava di una tempesta perché pioveva a dirotto e il vento urlava fortissimo. Il papà fermò la macchina per prudenza, mentre il cielo diventava blu cobalto, poi verde smeraldo, poi rosso rubino. E quando tutto il cielo e tutto intorno fu color vermiglio, davanti agli occhi stupefatti dell’uomo e del bambino apparve una spirale gigantesca. Pareva un arcobaleno rotante, un tornado coloratissimo che turbinava minaccioso nella loro direzione. Prima che potessero scendere dall’automobile e fuggire, il vortice li risucchiò con un frastuono assordante.

Non appena il fragore cessò, scese un silenzio innaturale. Ben aveva tenuto gli occhi chiusi per lo spavento, e quando li riaprì, ciò che vide fu ancor più stupefacente del fantasmagorico ciclone. Giaceva disteso accanto al padre e l’auto era scomparsa.
Si guardò intorno. Il prato era celeste, con i fili d’erba blu come le genziane sui davanzali a casa della nonna. Gli alberi minuscoli come i bonsai dello zio e i fiori alti come i cipressi del cimitero dove dormiva il nonno.
Alzò lo sguardo al cielo, che invece di essere azzurro era verde. Di un bel verde mela pallido, come la frutta della merenda a scuola. E lassù splendevano tre soli rosa, un rosa tenero e gioioso, proprio come le rose che papà aveva regalato alla mamma per il loro anniversario. Le nuvole invece erano batuffoli gialli come i pulcini di Amilcare, il contadino che portava le uova la domenica… Insomma, era tutto fuori posto!

Quando si riprese un poco dallo stupore gridò: «Papà, papà, ma dove siamo finiti?»
L’uomo aprì gli occhi in quel momento, si girò e rigirò da tutte le parti, spalancò la bocca in un gigantesco sbadiglio e si riaddormentò. Ben loscosse a lungo e con tutta la forza che aveva, ma senza successo. Il papà era caduto in un sonno profondo, con le mani sotto la testa come cuscino, e un sorriso beato sul volto. Il bimbo non sapeva che fare. Allora s’incamminò con la speranza di trovare aiuto.

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Ma, cammina cammina, non incontrava nessuno, solo enormi, profumatissimi fiori e piccoli alberi dai rami contorti. Fino a quando un fortissimo ronzio lo fece voltare di scatto. Una coccinella grossa come un pollo era atterrata dietro di lui.
«Ahhh!» gridò terrorizzato.
«Aiutooo!» gridò la coccinella, e corse a nascondersi dietro lo stelo di un fiore grande come un tronco d’albero.
«Cosa sei?» chiese la coccinella dopo qualche istante di sgomento, facendo capolino con la antenne da dietro il fiore.
«Sono un bambino» rispose Ben con voce tremante.
«E cos’è un bambino?» la coccinella parlava ancora dal suo nascondiglio, sospettosa.
«Un essere umano che deve crescere».
«E cos’è un essere umano?» incalzò l’insetto. Benvenuto ci pensò un po’ su e convenne che non sapeva spiegare una cosa del genere.
«Non lo so, ma ho bisogno di aiuto, mi sono perso in questa bizzarra foresta e mio padre è caduto in un sonno dal quale non vuole svegliarsi».
«Bizzarra foresta? Ma ti sei guardato quanto sei strano tu?»
Benvenuto non volle insistere, non sottolineò il fatto che le coccinelle nel suo mondo erano poco più grandi di un seme di mela, e disse soltanto: «Insomma, puoi aiutarmi o no?»
«Mmm… vediamo… ah sì, chiamo Farfalla Rosalba, ti porterà in volo fino a Maggot, il villaggio degli gnomi; è troppo distante da qui per andarci a piedi. Ti avverto, li spaventerai tutti con la tua diversità e forse non vorranno darti aiuto. Ma tu guardali intensamente negli occhi; hai uno sguardo buono, e da quello capiranno che non vuoi fare del male».
Mentre parlava in quel modo, era uscita dal nascondiglio e si era avvicinata al bambino per osservarlo meglio; i suoi occhietti neri si muovevano per squadrarlo su e giù, giù e su. Continuò in quel modo per diversi minuti.
«Beh? Non chiami farfalla Rosalba?» disse infine Ben che si sentiva un po’ a disagio, come quando era lui a mettere le coccinelle sotto la lente d’ingrandimento per osservarle meglio.
«Ma certo, l’ho già fatto, è in arrivo».
«Io però non ho sentito niente!»
«E cosa dovevi sentire?» La coccinella, meravigliata da quella domanda, parlò sgranando gli occhi che diventarono più grandi.
«Dovevo sentire un grido, non so, un richiamo…»
m2«Che sciocchezza è mai questa? Non mi sentirebbe, è dall’altra parte della foresta!»
«Dunque come hai fatto ad avvertirla?» chiese Ben che non riusciva a capire.
«Con la telepatia, che altro sennò?»
«Con che cosa…?!» Il bambino era sempre più confuso.
«Con la telepatia, cioè con il pensiero. Ma non sai proprio niente, tu!» disse l’insetto un poco spazientito.

In quel momento il cielo verde divenne scuro, una farfalla gigantesca stava sorvolando le loro teste. Si posò leggera, nonostante le dimensioni, sui petali di una rosa rossa, e Benvenuto poté ammirarla in tutta la sua magnificenza. Le immense ali color turchese erano screziate di blu mirtillo, blu come le antenne sottili e lunghe che dondolavano mosse dal vento.
Parlò con una voce aggraziata e lenta, dall’accento un po’ vanitoso: «Lui chi è?»
«Un essere chiamato bambino. Devi portarlo a Maggot, ha bisogno di aiuto» rispose la coccinella.
Ben aveva la bocca spalancata dallo stupore e non sembrava in grado di parlare in quel momento. Senza perdere tempo Rosalba lo afferrò e volò via con lui; leggera ma evidentemente forzuta, ondeggiò nell’aria verde mela fino al villaggio.
Lo depositò gentilmente a terra e disse: «Da qui in poi devi proseguire solo. Meglio non sappia nessuno che ho aiutato una strano essere a raggiungere Maggot, il villaggio segreto degli gnomi; ma tu hai occhi innocenti e sono certa che non farai del male. Piuttosto, sii prudente, potrebbero lanciarti pietre». E se andò svolazzando turchina.

Il villaggio era prossimo, Ben sentiva persino canticchiare in lontananza. Mentre affrettava il passo, vide qualcuno seduto all’ombra dei petali di una gerbera bianca, appoggiato allo stelo grosso come il tronco di una quercia. Sembrava un bambino, ma non poteva vederlo bene perché nascondeva il viso tra le mani, e quando fu più vicino si accorse che piangeva.
«Ti sei perso anche tu?» gli chiese.
A quelle parole la creatura alzò lo la testa e Ben poté guardarlo in volto. Non era un bambino; i suoi tratti non rispettavano le proporzioni di una faccia umana, ma la sua bellezza era tale da togliere il fiato. Aveva la pelle diafana, talmente diafana da mandare bagliori d’argento, e gli occhi gnomgrandi almeno il doppio di quelli di un bimbo, trasparenti e luminosi come due cristalli di ametista. La sua lunga chioma color platino luccicava come i fili dell’albero di natale. Tutta la figura di quell’essere esprimeva una straordinaria armonia. Si alzò in piedi, facendo leva sulle mani a quattro dita.
Benvenuto, che a quella visione pensò di essere morto e che quello fosse in realtà il paradiso, disse balbettando: «Sei… Sei un angelo?»
La creatura ricominciò a piangere, e tra le lacrime rispose: «Sono uno gnomo… Nemmeno tu mi hai riconosciuto!»
«Scusami, io non ho mai visto uno gnomo. A dire il vero non ho mai visto nemmeno un angelo, ma pare che siano bellissimi, e tu lo sei…»
Non lo avesse mai detto! Lo gnomo passò dal pianto ai singhiozzi disperati. Ben era mortificato e confuso. «Perché piangi?»
«Perché sono bello!» rispose la creatura d’argento soffiandosi il minuscolo naso.
«Ma la bellezza è una cosa bella… Cioè, voglio dire… è un dono meraviglioso. Tu non lo vuoi?»
«Mi rende diverso da tutti, il prossimo ride di me e io mi sento così solo!»
«Nel mio mondo la bellezza è la cosa più desiderata, più preziosa… almeno credo» mentre pronunciava quelle parole, Ben comprese che in quello stranissimo luogo era davvero tutto al contrario! «Quindi gli gnomi sono brutti?» aggiunse.
«Sì, magnificamente brutti» rispose Silverdon – quello era il suo nome – con la voce triste e un’espressione sconsolata.
«Andiamo al villaggio, voglio vedere come sono fatti quelli della tua razza».
«Tireranno le pietre a tutti e due, perché anche tu sei diverso».
«Non abbiamo scelta. Io devo chiedere aiuto per tornare a casa e, tu, vuoi restare qui tutto solo a morire di tristezza?»

Benvenuto prese per mano il nuovo amico stringendo tutte e quattro le sue dita, e insieme camminarono fino Maggot.m4
Era preoccupato ma doveva farsi coraggio per entrambi. Ci misero più tempo del previsto perché Silverdon aveva uno strano modo di camminare: saltellava a piccoli passi sui piedi scalzi, anch’essi a quattro dita.

Infine ecco il villaggio. La prima cosa che vide Ben furono le case degli gnomi: enormi funghi dal cappello rosso o bruno, tutti con porta e finestre piccine. Quella che pareva la strada principale era costeggiata su entrambi i lati da una fila ordinata di margherite altissime, come un viale alberato che al posto degli alberi ha i fiori. E i funghi-casa più grandi erano dotati di balconi, con vasi dove crescevano piccoli alberi al posto dei fiori. Un gran via vai di gnomi affollava la strada, parevano tutti molto affaccendati.

Silverdon aveva affrettato il passo e camminava a testa china stringendo più forte la mano di Ben. Non voleva farsi notare, anzi, avrebbe proprio voluto nascondersi. Ma lui e il bambino erano molto più alti rispetto a tutti gli gnomi ed era impossibile passare inosservati. Infatti, ben presto, qualcuno cominciò a indicarli col dito, a sghignazzare o a scansarsi per evitare un contatto accidentale.gnomobrutt
Benvenuto guardava questi esseri piccoli e gobbi dalla pelle grigiastra. Con i loro nasoni, le grandi bocche storte dai radi denti aguzzi e gli occhi sporgenti come palle; erano… proprio brutti! Come potevano, loro, considerare brutto Silverdon?

«Andiamo, svelto», Silverdon trascinò Benvenuto in un vicolo stretto stretto, e da lì, di corsa fino a casa sua. Quando aprì la porta, una signora gnomo gli corse incontro e lo abbracciò così forte che pareva volesse stritolarlo, anche se era più piccola di lui.

«Tesoro, mi hai fatto stare così in pena!» Era la madre di Silverdon, e Ben comprese che le mamme sono proprio mamme ovunque, anche in un mondo fatto al rovescio come quello.
Finalmente si accorse di lui. Spalancò gli occhi a palla e disse: «Ohhh, abbiamo un ospite!» Poi rivolgendosi al figlio: «Hai portato un nuovo amico? Hai fatto bene!» E la sua bocca grande si aprì in un sorriso dolcissimo, scoprendo i denti radi e aguzzi.
Mentre faceva accomodare Ben sopra un fiore di giglio reciso, continuava a fissarlo. Il cuore le batteva forte, di compassione ma anche di conforto, perché stava pensando che non era più l’unica mamma di uno sfortunato gnomo bello. Da qualche parte, un’altra povera mamma condivideva il suo tormento.
Silverdon parve leggerle quel pensiero: «Mamma, lui non è uno gnomo, è un bambino, viene da un altro mondo».
«Ohhh… e di che razza sono i bambini?» disse la signora gnomo delusa, ma piena di curiosità.
«Razza umana, si chiama così, però non so spiegare cosa sia», rispose Ben.
«E sono tutti… ehm… come te, nel tuo mondo?»
La mamma aveva abbassato la voce; temeva di offendere il suo ospite con quella domanda ma doveva assolutamente saperlo se esisteva un paese dove tutti sono sfortunatamente belli come il suo figliolo!
Ben capì e rispose: «Sì, nel mio mondo siamo fatti così. Da noi è tutto al rovescio. E la bellezza è una grande fortuna!»
«Davvero?» Gli occhi di mamma gnomo si illuminarono.
«Davvero», continuò Benvenuto. «Una creatura come Silverdon sarebbe considerata meravigliosa dagli esseri umani; magari un po’ fuori dal comune, ma certamente molto apprezzata. Anzi, sarebbe vista quasi come una divinità!»
Le quattro dita delle mani di mamma gnomo cominciarono a tremare e i suoi occhi si fecero lucidi come se stesse per piangere. Il cuore pareva scoppiarle nel petto dalla gioia. Poi, l’espressione di meraviglia del suo volto si tramutò in una smorfia di dolore e disse: «Bambino, ti prego, porta Silverdon con te, nel tuo mondo, portalo via da qui…»
L’amore di una madre non ha confini, trascende anche la sofferenza di strapparsi un figlio dalle braccia pur di saperlo felice e al sicuro. E mamma gnomo era pronta al sacrificio.
«Se Silverdon è d’accordo, io sarò felice di portarlo a casa mia, però devo sapere come tornarci… a casa mia!»
«Andiamo da Frudolg, il capo villaggio, lui conosce tutto di ogni cosa, potrà aiutarci» disse la signora mentre allungava al bambino e al figlio due foglie cucite a foggia di cappuccio. Ma Silverdon questa volta rifiutò di nascondere il volto sotto al cappuccio per non spaventare, con la sua bellezza, il popolo di Maggot. La presenza di Ben lo rendeva forte, non era più l’unico bello in circolazione e non voleva più nascondere la sua diversità né provarne vergogna.

m8Nella piazza del villaggio c’era il fungo-municipio, la residenza di Frudolg. Quando la signora gnomo, Silverdon e Benvenuto furono al suo cospetto, il vecchio gnomo li ricevette con un po’ di imbarazzo e lo sguardo basso. Era a disagio ogni volta che incontrava Silverdon e sua madre, e ora, di sfortunati giovani deformati dalla bellezza, ce n’erano addirittura due!
Benvenuto espose subito i fatti senza perdere tempo.

Il vecchio ascoltò con grande attenzione, e si grattò a lungo la barba mentre rifletteva, prima di rispondere. Poi cominciò a tracciare strani segni sopra a un tavolo cosparso di sabbia, utilizzando un rametto di quercia nana. Dopo numerosi e complicati calcoli disse: «Ci sarà presto un’altra tempesta cosmica, un evento raro. Dobbiamo sbrigarci, il varco spazio-tempo è in chiusura e la porta si trova nella Radura di Noll, presso il Cristallo Sacro. Ma è protetta da un guardiano terribile, l’elfo Palantir».
«Varco spazio-tempo? Di cosa si tratta?» chiese Ben che non aveva mai sentito parlare di una cosa del genere.
«L’universo è immenso, figliolo. E non solo le distanze da un punto all’altro del cosmo sono incalcolabili, ma esistono anche universi paralleli molto differenti. Come lo è il tuo dal mio. L’unico modo di viaggiare attraverso i mondi è con questi specialissimi tunnel».
Benvenuto non era affatto sicuro di aver capito, ma pensò che avrebbe chiesto spiegazioni più precise al suo papà, quindi non disse altro.

«Può viaggiare anche Silverdon con il bambino e andare con lui nel suo mondo?» La mamma gnomo aveva parlato con i pugni serrati al petto, trepidante di speranza e di dolore.
«Perché vuoi sbarazzarti del tuo amato figlio?» chiese il capo villaggio stupito.
Rispose Benvenuto per lei: «Perché il mio mondo è fatto al contrario e la bellezza da noi non è un difetto ma una benedizione. Silverdon è talmente bello e speciale che sarebbe amato e venerato quasi come un Dio».
«Davvero?» esclamò Frudolg al colmo dello stupore, ma gli credette, perché Ben aveva parlato rivolgendo lo sguardo a sinistra, che nel linguaggio del corpo significa dire la verità, e il saggio gnomo conosceva il linguaggio del corpo. Inoltre il bambino aveva occhi innocenti, e quelli non mentono mai.
Si trattava di informazioni importanti, doveva valutare molto bene la faccenda. Riprese ad accarezzare la sua barba giallognola nel silenzio rispettoso dei tre convenuti. Dopo una lunga pausa disse: «Se dunque la bellezza e la bruttezza non sono la stessa cosa per tutte le creature dell’universo, allora non si tratta di una verità assoluta. Significa che non esiste il bello e il brutto, bensì ciascuno è fatto a suo modo, unico e irripetibile. Come mai eravamo all’oscuro di tutto questo? Ahhh, quei pelandroni dei nostri messaggeri! Invece di andare in giro a raccogliere la conoscenza, se ne stanno a grattarsi la pancia e bere sidro! Questa rivelazione deve diventare patrimonio di tutti. Farò un esposto pubblico perché l’intera comunità di Maggot sappia la verità».

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Poi afferrò le mani della mamma di Silverdon e riprese: «Non crucciarti madre, non dovrai rinunciare a tuo figlio, d’ora in poi tutti qui lo guarderanno come un essere speciale e nessuno avrà più timore di lui. Perbacco, non vogliamo diventare famosi per essere un un popolo barbaro e ignorante!»
La signora gnomo scoppiò in un pianto commosso e, dopo anni di tormento, provò di nuovo cosa significa essere felice.
Ben aveva un groppo in gola perché non aveva mai pensato al dolore che provoca la diversità. Dal canto suo Silverdon, che ancora non poteva credere a quel miracolo, si specchiò nella tinozza del sidro e per la prima volta gli piacque l’immagine che vide.
«Sbrighiamoci!» Il capo villaggio impugnò il suo bastone nodoso e condusse tutti fuori da Maggot, fino alla foresta dei girasoli.

Attraversarono uno sconfinato campo di granoturco azzurro; il guado di un ruscello dall’acqua rosa (perché ci si specchiavano i tre soli rosa, altrimenti sarebbe stata trasparente); una prateria insidiosa di piccole querce i cui rami graffiavano le caviglie; la ripida montagna dei fiori bianchi di saponaria, più scivolosa di una pista da sci e che scalare richiese un sacco di tempo e scivoloni. E infine giunsero alla Radura di Noll. Ora dovevano affrontare il terribile Palantir, l’elfo guardiano.

«Palantir! Qui tre viandanti chiedono di parlare con te!» Il capo villaggio gridò con voce sorprendentemente alta e il suo richiamo echeggiò per tutta la vallata.
«Perché chiami il temibile elfo, invece di farci passare di nascosto? Credevo che dovessimo sfuggirgli!» chiese Ben spaventato.
«Bambino, l’elfo guardiano non è solo. Ha un esercito di Otimors, i terribili elfi dalle unghie a sciabola. Se attraversassimo la radura senza il lasciapassare di Palantir, ci affetterebbero come carote!»

Frudolg non aveva nemmeno finito di parlare che, apparso chissà da dove, ecco, davanti a loro, l’altissimo e minaccioso Palantir. Incuteva davvero paura con quelle enormi orecchie appuntite, gli occhi obliqui e trasparenti come cristallo e i lunghissimi capelli bianchi come la neve che scendevano sulla veste di velluto blu come la notte. Rivolse uno sguardo verso il basso a quei temerari che osavano disturbarlo. Ben aveva invece timore anche solo ad alzare lo sguardo su di lui.

Toccò al capo villaggio parlare, ovviamente: «Palantir, permettici di attraversare la Radura di Noll e raggiungere il Cristallo Sacro, prima che si chiuda il portale spazio-tempo. Questo giovane umano deve tornare nel suo mondo».
«Conosci la Legge, uno di voi quattro deve rispondere alla mia domanda e se fallisce morirà. Vuoi esporre a morte certa te stesso o qualcuno dei tuoi amici?»
La legge degli elfi di Noll era ferrea. Per accedere alla loro terra si doveva dimostrare una saggezza rara: la sfacciataggine di tentare la sorte, senza possederla, si pagava con la vita.
«Non abbiamo scelta! Ebbene, poni la tua domanda, risponderò io», disse Frudolg, offrendo eroicamente se stesso.
«No, non è giusto, sono io che devo tornare a casa, falla a me la domanda!» Benvenuto non riusciva a credere alle parole coraggiose che gli erano appena scappate di bocca.
«No, falla a me la domanda», disse Silverdon, con la sua voce armoniosa come un canto.
«No, falla a me!» implorò la mamma, che non avrebbe potuto sopportare il sacrificio del figlio.

«Bene!» tuonò Palantir. «La farò a tutti voi. Chi darà la risposta per primo esporrà se stesso alla morte. La domanda è questa: qual è la cosa più preziosa di tutto l’universo?»
«La conoscenza!» disse Frudolg.
«La giustizia!» disse Ben.
«La libertà!» disse Silverdon.
«L’amore!» gridò mamma gnomo.
Risposero tutti e quattro insieme.
In quel momento il cielo fu oscurato da una moltitudine di ali. Farfalla Rosalba sollevò Benvenuto. La coccinella grossa come un pollo, che guarda un po’ si chiamava Pollon, prese il capo villaggio. Il coleottero d’oro Dorione, cugino di Pollon, acchiappò mamma gnomo. E la libellula Loralilla, cognata di Rosalba, afferrò Silverdon.
Prima che Palantir potesse reagire, erano tutti salvi, in volo verso il nascondiglio segreto del Cristallo Sacro.

«Come sapevate che avevamo bisogno di soccorso?» chiese Ben appeso alle sottili zampe di Rosalba, mentre dondolava nell’aria verde mela.
«Oh, che domande, bambino! Il tam tam no?»
«Il… cosa?»
«Il tam tam, il passa parola telepatico! Come credi che facciamo pettegolezzo altrimenti, noi che viviamo in questo mondo sconfinato?»

m5In breve raggiunsero la loro destinazione e furono tutti depositati gentilmente a terra. Beh, non proprio tutti; Pollon planò in modo un po’ maldestro e fece sbattere il nasone a Frudolg che le lanciò un’occhiataccia.
«Di qua!» disse poi lo gnomo alzando il suo bastone, e condusse il gruppo verso un baobab.
Anche se gli alberi di quella terra erano nani, essendo il baobab un albero relativamente gigante, era abbastanza grande da ospitare l’ingresso di una caverna sotterranea. Scesero tutti, anche gli amici insetti, stringendo le ali. E lì, nel buio, splendeva un enorme cristallo di quarzo.
«Ohhh!» esclamarono tutti insieme. Nessuno di loro, tranne il vecchio gnomo, aveva mai avuto il privilegio di trovarsi al cospetto del Cristallo Sacro, il custode millenario di una delle rare porte spazio-tempo dell’universo.

Benvenuto e Silverdon si guardarono. Gli occhi ametista dello gnomo bellissimo mandavano bagliori di stelle nella luce magica della caverna. Era giunto per loro il momento di separarsi; e forse per sempre. Appoggiarono la fronte una contro l’altra, senza parlare, e i capelli castani di Ben si mischiarono ai riccioli platino di Silverdon.
«Addio, caro amico gnomo», disse Ben.
«Addio, caro amico umano», disse Silverdon.
Pollon si soffiava il naso, anche se non ce lo aveva il naso, ma insomma doveva pur esternare in qualche modo la commozione che provava il suo tenero cuore d’insetto!
Rosalba invece disse con la sua voce suadente: «Se fate pratica con la telepatia, potrete comunicare da qualunque distanza o pianeta dell’intera creazione».

«Su su, svelti, il portale si sta chiudendo!» esortò Frudolg. «Allontanatevi tutti, e tu, bambino, appoggia la mano destra sulla punta del Cristallo Sacro».
Dall’interno della caverna si udì un fragore tremendo, fuori urlava la tempesta. In quel momento il Cristallo si accese di una luce abbagliante, e Ben, che aveva la mano destra appoggiata sulla punta, scomparve sotto gli occhi spalancati e stupefatti dei suoi amici.

Si ritrovò sul sedile posteriore dell’automobile, la quale stava girando vorticosamente risucchiata dal tornado, e il papà era di nuovo sveglio e al posto di guida.
«Tieniti forte, figliolo!» gridò.
Ma Benvenuto non aveva paura. In verità si stava chiedendo quale fosse la risposta giusta alla domanda dell’elfo Palantir: qual è la cosa più preziosa dell’universo intero? E, una volta cessato l’uragano, sarebbe tornato a casa o precipitato dentro un’altra fantastica avventura?

(fine)

Grazia Catelli Siscar è autrice del libro I Viaggi di Timoteo – Incontri con l’Angelo e altre creature straordinarie (Anima Edizioni)

I Viaggi di Timoteo Grazia Catelli Siscar

 

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