È noto che i colori producono effetti psicofisiologici molteplici e ben precisi, dall’alterazione della percezione spaziotemporale a quella del ritmo respiratorio e della pressione sanguigna. Sollevare una cassa di colore scuro sembra più faticoso rispetto a un’altra dello stesso peso ma di colore chiaro: non solo si sperimenta una sensazione di maggiore leggerezza, passando dall’una all’altra, ma c’è chi ha persino riscontrato l’attenuarsi di dolori alle braccia e alla vita.
I colori agiscono in modo sensibile sul nostro comportamento e sulla nostra salute, determinando di fatto reazioni a livello inconscio. Alla base del loro influsso comunemente si ritiene che ci sia la percezione retinica, che trasforma l’impulso luminoso in messaggio nervoso, elaborato quindi dal cervello. Ma siamo sicuri che le impressioni provocate dai colori dipendano solo dalla vista e dalle relative associazioni di idee?
Gli studi sulla percezione dei colori, portati avanti sperimentalmente negli ultimi cento anni, sembrano dimostrare che le variazioni cromatiche non sono solo viste, ma sentite da tutto l’organismo, tanto che si parla di una “vista parallela”, esercitata (e sempre più esercitabile con la pratica) da alcune parti del corpo, in particolare le mani, i piedi, il petto e la nuca. Se questa scoperta può sembrare straordinaria, ancora di più lo è il fatto che ne costituisce la prova: i colori agiscono su di noi anche quando non sono visibili, cioè al buio, dal momento che si è dimostrato che siamo in grado di percepirli e di riconoscerli.
Si parla dunque di percezione “dermo-ottica”, cioè di quell’insieme di sensazioni epidermiche che mutano per caratteristiche e intensità col variare delle superfici colorate su cui far scorrere le dita al buio. I colori non visibili si riconoscono allora come “pesanti” o “leggeri”, “caldi” o “freddi”, per cui risulta facile distinguere il rosso dal verde, il giallo dal blu, meno evidente invece la differenza tra rosso e rosa, tra blu e azzurro, come di fatto avviene quando i colori sono visibili.
Significativi esperimenti sono stati condotti con non vedenti, utilizzando carte colorate da mettere in ordine in base alla percezione tattile: le carte risultavano alla fine regolarmente disposte dal rosso al blu scuro in perfetta corrispondenza con l’ordine del prisma, nella successione dai colori caldi (rosso, arancione, giallo) a quelli freddi (verde, blu, indaco, viola). Il rosso, oltre che “caldo”, fu percepito persino come “rugoso”, mentre il giallo risultava più “liscio”.
Analoghi riscontri si sono ottenuti anche con soggetti vedenti tramite le stesse carte colorate chiuse in buste opache o comunque in condizioni di non visibilità, a riprova che la percezione dei colori può prescindere dalla vista e si accresce notevolmente con l’esercizio.
Ulteriori conferme di come i colori possano suscitare le stesse reazioni a livello sia visibile sia non visibile sono state ottenute con esperimenti condotti già quarant’anni fa presso il Laboratorio del Centro di illuminazione e di informazione di Parigi, in apposite stanze illuminate in cui i muri potevano cambiare colore. Quando le pareti diventavano rosse, i non vedenti avvertivano la netta sensazione che la stanza si restringesse, fino a provare persino paura e senso di soffocamento; quando invece diventavano bianche, l’impressione era che la stanza si dilatasse. Di fatto chi si occupa di arredamento sa bene che proprio questo è l’effetto che producono certi colori.
Il fenomeno della percezione tattile dei colori non visibili non è nuovo. In passato lo si attribuiva a doti extrasensoriali di tipo chiaroveggente. Già nel 19° secolo si osservò come si verificasse soprattutto in stato di ipnosi, ma il primo a formulare una spiegazione di tipo fisiologico fu il romanziere francese Jules Romains, che nel 1920 ipotizzò che la capacità di distinguere i colori senza l’aiuto della vista dipendesse da cellule della pelle, che chiamò “ocelle”, in quanto funzionanti, a sua avviso, come piccoli occhi, constatando per giunta come si trattasse di una facoltà molto diffusa. Questa “visione extraretinica”, secondo la sua definizione, si può considerare di fatto la prima spiegazione “scientifica”.
Oggi la ricerca dermo-ottica si avvale di metodi ovviamente più avanzati, quali la termoscopia, l’elettroencefalografia e la fotografia dell’epidermide in un campo ad alta tensione e ad alta frequenza, misurando così l’intensità di reazione di una persona alla presenza di superfici colorate a lei non visibili. Ma la spiegazione del fenomeno, proseguendo su basi di carattere esclusivamente fisiologico, resta incerta. Un’ipotesi esplicativa di questa “vista parallela”, che potremmo definire “a tutto campo”, si basa su l’interazione tra i raggi infrarossi emessi dagli oggetti colorati e i raggi infrarossi emessi dall’uomo.
Un’ulteriore prova della particolare sensibilità del nostro organismo ai colori ci viene dalla radiestesia, che permette di captare le corrispondenze vibrazionali tra i colori e lo stato di salute e di identificare quelli più idonei per ristabilire il giusto equilibrio energetico. Le reazioni del pendolino tra le dita dell’esperto hanno evidenziato un legame terapeutico tra determinati colori e certe malattie, persino prima del loro insorgere. Ad esempio, il mal di fegato risulta collegato al carminio, il mal di cuore all’azzurro, l’uricemia all’argento, il diabete al bianco di zinco, l’artrosi al marrone e l’anemia al blu. Chi volesse approfondire questo metodo analitico radiestetico, detto “cromodiagnosi”, può trovare una miniera di dati nel prezioso testo La radiestesia applicata alla medicina del gesuita Fernando Bortone.
Di fatto le radiazioni elettromagnetiche, «vibrazioni sotto forma di onde generate da un movimento di cariche elettriche o dalle transizioni energetiche che avvengono a livello di molecole, atomi o nuclei», che noi chiamiamo “colori”, permeano l’ambiente in cui viviamo, determinando costantemente, e a nostra insaputa, reazioni e ritmi nel sistema energetico del nostro “psicosoma”. Potremmo accostare, per analogia, i loro effetti sensibili e straordinari alla fotosintesi clorofilliana, in base al principio secondo cui «i raggi del colore complementare al colore di un corpo provocano delle attività chimiche in quel corpo».
Cesare Peri
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