L’icona, sorta fin dalle origini del Cristianesimo, esprime il linguaggio dell’arte bizantino-slava, in cui s’incontrano il mondo biblico, la cultura ellenistica e il pensiero cristiano. Dopo un’evoluzione di quattro secoli l’immagine (greco èikon) di carattere sacro si trasforma in un oggetto di culto, fino ad assumere significati esoterici, con simboli e allegorie sempre più complesse di carattere filosofico e teologico, decifrabili solo dagli eruditi. Si pensi ad esempio alla famosa rappresentazione della Trinità di Andrej Rublëv (XVI sec.), incentrata sull’aspetto dogmatico.
Il rito della benedizione dell’icona, data dalla Chiesa, sancisce la sua diversità da una semplice raffigurazione pittorica e la riconosce come luogo reale della presenza di Dio («Sacramentale partecipe della sostanza divina»), un tramite tangibile tra l’uomo e il Divino. L’icona è quindi «teofania» e «tempio», secondo la definizione dei Padri conciliari di Efeso, e a fondamento di tutta l’arte iconografica sta «l’incarnazione del Figlio di Dio», la natura teandrica di Cristo, cioè il suo essere “dio e uomo”. Questo il valore e la natura delle icone, sancito ufficialmente dal Concilio di Nicea (787).
In altre parole l’icona non è intesa come un quadro, ma, in quanto materia, il «luogo della presenza», compresenza reale del visibile e dell’Invisibile, dell’umano e del divino, cioè della duplice natura del Salvatore, perciò partecipe del Mistero dell’Incarnazione. In essa è quindi compresente una dimensione fisica e una trascendentale. L’immagine offre così una visione teologica, rappresentando con forme e colori ciò che la Scrittura insegna con la parola, tanto che a proposito del lavoro dell’iconografo (un religioso che si preparava all’opera col digiuno e con la preghiera) sia in greco sia in russo non compare il termine “dipingere” un’icona, bensì “scrivere”.
Premesso, dunque, che l’icona si configura come immagine e presenza dell’Invisibile, offerta alla meditazione e venerazione del devoto, l’uso del colore, in quanto materia, assume il significato di riflesso della luce, intesa come realtà invisibile, simbolo platonico, neoplatonico e infine cristiano del Divino. Di conseguenza la tecnica cromatica è “tecnica teologica”, non mira ad effetti coloristici (persino la prospettiva è ribaltata verso l’osservatore e non vi è profondità all’interno della rappresentazione), ma è una «teologia delle bellezza e della luce», «sorgente di grazia per coloro che la guardano».
Dal momento che l’iconografo volutamente ignora la somiglianza con la natura, ma desidera rappresentare verità eterne, i colori assumono significati diversi, a volte ambigui (non è possibile parlare di un canone bizantino dei colori), determinati più dagli attributi tradizionali dei personaggi che da intenti realistici. Di conseguenza la raffigurazione assume un carattere misterioso, fisico e metafisico, tutta pervasa da una luce (della Divinità) che non proietta ombre nella sua fissità simbolica. Nell’intento di oltrepassare le forme del mondo materiale, spiritualizzandole, la scelta cromatica non segue ragioni estetiche, ma ogni colore è “autosemantico”, cioè trasmette un suo messaggio e irradia la sua tinta indipendentemente dagli altri, giacché l’icona stessa “brilla di luce propria”.
A tal fine tra tutti i colori l’oro svolge un ruolo primario nell’iconografia e, in quanto simbolo della luce divina, non è considerato propriamente un colore, ma un irraggiamento immateriale che dà vita alla materialità degli altri colori. Il giallo risulta così spodestato dal suo ruolo di simbolo solare e assume una scarsa valenza simbolica e persino una connotazione negativa, come segno di cattivi raccolti e di malattia nella narrazione biblica e di tristezza, come nell’icona della Deposizione nel sepolcro della scuola di Novgorod.
Il rosso per il suo forte irradiamento, simile a quello della luce, viene anche usato per fare da sfondo all’icona, come l’oro e il bianco, ma rappresenta per eccellenza il sangue di Cristo (la veste rossa del Pantocrator) e la vita che egli reca agli uomini con il suo sacrificio, ricorrendo in molte rappresentazioni. È il mantello posto sulle spalle di Gesù durante la passione, una parte della veste dei martiri, il manto di san Michele arcangelo, il colore stesso dei Serafini. Il rosso cremisi conserva tuttavia la valenza negativa del peccato, del male e delle fiamme infernali. Ad esempio nell’Apocalisse (17, 3-4) la grande prostituta e la bestia che la porta hanno come colore distintivo lo scarlatto. Il bruno, che al rosso unisce il blu, il verde e anche il nero, per la sua opacità esprime invece la densità della materia, mentre nelle tonalità più scure riveste monaci e asceti, come segno di povertà e rinuncia al mondo.
Il verde mantiene i suoi significati base, legati alla natura, di fertilità, giovinezza e speranza. Armonizza bene con il rosso, in quanto suo complementare, e nelle sfumature gialle e blu è spesso presente nelle vesti di re e profeti. In quelle dei martiri, accanto al rosso, sta ad indicare il sacrificio del fiore della giovinezza.
Il blu indica il mistero della vita divina. È il colore più spirituale, simbolo della trascendenza, tanto che il manto del Pantocrator è raffigurato ora purpureo, ora di un blu scuro, come le vesti della Vergine e degli apostoli. Con la sua energia centripeta accresce il senso di raccoglimento e di irrealtà del mondo terreno. Nelle sue sfumature più chiare alleggerisce e “purifica”: «Colui che desidera davvero vedere cosa sia la sua mente deve liberare se stesso da tutti i pensieri; poi la vedrà come uno zaffiro o il colore del cielo» (San Nilo, citato nella Filocalia).
Il bianco, per l’assenza di colori e per dinamismo nella sua forma più pura, che lo avvicina alla luce, è il simbolo della divinità. Il suo straordinario irradiamento è utilizzato ampiamente nelle icone della Trasfigurazione e della Resurrezione, ma conserva la sua doppia valenza: oltre a indicare la gloria e la potenza del Divino, richiama l’idea della morte e della distruzione del mondo terreno (raffigurazioni di Lazzaro e della deposizione di Cristo nel sepolcro). Prevale tuttavia il significato positivo di gioia (il colore delle grandi feste liturgiche), di purezza, a indicare quelli che sono nella Luce (gli angeli presso la tomba di Cristo, gli angeli dell’Ascensione e i vegliardi dell’Apocalisse, «le cui vesti sono state lavate nel sangue dell’Agnello») e coloro che si convertono, i cui peccati diverranno «bianchi come la neve» (Isaia, 1, 10).
Oltre alla «policromia», caratterizzata dalla funzione autosemantica del colore, prevalente nell’arte di Novgorod, gli iconografi bizantini ricorrono anche al «colorismo», in cui i colori con le loro varie sfumature concorrono a creare l’atmosfera di avvenimento sacro nella sua unità. Tuttavia anche questo sistema, pur dando alle cose il loro giusto colore e stabilendo una relazione tra i personaggi, con notevoli effetti estetici ed emozionali, non vuole rappresentare la realtà, ma aspira comunque a destare il senso del mistero, della visione assorta, della grazia che si offre alla contemplazione dell’Invisibile che si rivela. Protagonista indiscussa resta la luce, perché «la luce è la spiritualità del colore e il colore è l’elemento corporale della luce» (Mohammad Karim-Khan Kermani).
Cesare Peri
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