Uno dei sentimenti più belli e “nobili” è senz’altro quello che induce a perdonare, intrinsecamente connesso, quando non è dettato da motivi di “diplomazia” o di convenienza, con la capacità di amare. Ma è proprio questo collegamento che ne rende difficile l’attuazione: il perdono dipende dal livello del sentire (inteso sia come sensibilità sia come coscienza) e dalla motivazione. Potremmo, schematizzando, individuare quattro modelli di perdono: sentimentale, etico, razionale e spirituale.
Più in generale si suole distinguere il “perdono delle labbra” dal “perdono del cuore” – perché a parole risulta più facile –, tuttavia, anche quando sembra spontaneo, nel proprio intimo può sempre restare qualche ombra di risentimento, pronta a riaffiorare alla nuova occasione, giacché tutti sanno che «al cuore non si comanda». E qui sta il problema: è possibile perdonare, quando si deve e quando si vuole?
In ambito cromatico il perdono sentimentale rientra a buon diritto nel colore verde, perché connesso al cuore (quarto chakra), dove si manifesta la sensazione di amare.
Se l’impulso del perdono proviene, come un secchio colmo di acqua pura da un pozzo profondo, da un amore incondizionato (come può essere l’amore di un genitore, che potrebbe persino tingersi di rosa), ci si può fidare della sua genuinità e della durata, ma, se scaturisce da un sentimento, sia pure sincero, di bontà, l’onda emotiva potrebbe anche esaurirsi, se non addirittura comportare fin dall’inizio delle condizioni, ovvero delle implicite minacce: «Per questa volta ti perdono, ma la prossima…».
Al verde, colore dell’equilibrio, della speranza, della rigenerazione e della rinascita, si potrebbe collegare anche il perdono etico, legato a una concezione morale o a un precetto religioso, ma qui per necessità si impone la chiarezza di una motivazione non semplicemente affettiva: perché «non mi lascio offendere e considero indegna la vendetta», «è bene», «così mi hanno insegnato», «questo è il precetto»…, magari fino al punto di chiedere come Pietro: «Signore, quante volte dovrò perdonare a mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?» (Matteo 18, 21).
Certamente il “perdono del cuore” ha maggiori garanzie di genuinità rispetto a quello “delle labbra”, ma è facile illudersi di concedere il perdono, senza rendersi conto che il cuore dovrebbe essere libero dai fantasmi della mente, tra i quali domina sovrano l’io, che utilizza facilmente l’atto del perdono per rafforzarsi, grazie al gratificante senso di magnanimità e, in ultima analisi, di superiorità che infonde in chi lo concede. Non a caso il verde contiene ancora il giallo, il colore dell’io.
All’uso più corretto e consapevole del giallo, in quanto espressione di un io maturo e della chiarezza mentale, ricorre invece il perdono razionale, con una motivazione precisa e costruttiva, fondata su basi psicologiche e, potremmo dire, “salutistiche”: qui non si tratta di perdonare per amore dell’altro, ma per amore di se stessi.
Il famoso Course in Miracles, dettato da alte guide spirituali, afferma che «ogni malattia deriva da uno stato di non perdono» e la scienza medica conferma lo stretto legame tra patologie gravi, spesso mortali, e il malessere interiore causato dal rimuginare fatti sgradevoli, che «non possiamo mandar giù» e tanto meno «riusciamo a digerire».
Questo tipo di perdono si fonda dunque, fin dove è possibile, sulla ragione: si tratta di deporre le valige cariche di risentimento, i pesi che ci opprimono e che abbiamo finora portati per una scelta inconsapevole. Il perdono perciò nasce da una premurosa attenzione per se stessi, da un desiderio di liberazione. Nel suo famoso libro Puoi guarire la tua vita Louise Hay spiega bene l’importanza di perdonare. Ovviamente questo tipo di perdono implica (in quanto basato su consapevolezza e forza di volontà) l’uso del si deve e si vuole: «Proprio lapersona che trovate più difficile perdonare, è quella che più dovete perdonare.
Perdono significa cedere, lasciar andare e non ha nulla a che fare con il condonare. Consiste semplicemente nel lasciar andare l’intera cosa; non dobbiamo sapere come perdonare, voler perdonare è tutto ciò che abbiamo bisogno di fare e l’universo si prenderà cura dei come» (Armenia 1990, p. 24). Si tratta in definitiva di costruire uno “scudo psicologico” che respinga l’energia negativa dell’offesa.
Quanto al quarto tipo di perdono, quello spirituale, per brevità ci limitiamo qui a dire che, diversamente dagli altri, non ha una motivazione, ma ha una causa, è questa consiste nel non sentirsi offesi (il “segreto” per poter davvero perdonare), conseguenza naturale di un sentire elevato della coscienza.
«Togli l’io e avrai tolto l’offesa» annotava nel suo diario l’imperatore filosofo Marco Aurelio. E il grande Maestro Paramahansa Yogananda a un monaco, che chiedeva scusa per il suo comportamento, rispose: «Be’, che altro posso fare?» (Il Maestro disse, Astrolabio 1970, p. 83).
Questo tipo di “perdono” (un vero “dono” per sé e per gli altri) si associa all’indaco, il colore altamente spirituale della trasmutazione. Quando kundalini raggiunge il chakra frontale incomincia la trascendenza: il “terzo occhio” riconosce l’unità di tutte le cose (tutto è vivo e interconnesso), incluse in un amore universale.
Ed è da questa visione, che implica un profondo cambiamento di coscienza, che scaturisce la vera facoltà di perdonare, che in realtà equivale alla scomparsa di questa facoltà. Dal che si deduce che, finché permane l’idea della possibilità di perdonare, permane, in modo più o meno larvato, anche l’offesa, perché in definitiva «Il perdono non è una scelta morale né un’opzione etica, ma è una necessità ontologica» (C.R. Payeur, Il chakra della fronte, L’Età dell’Acquario 1999, pp. 50-51).
Cesare Peri
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