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70. DEFINIRE IL COLORE

21/09/21

Dal punto di vista fisico le caratteristiche cromatiche, in quanto prodotte da variazioni nelle lunghezze d’onda della luce, si possono definire con una certa chiarezza, per esempio calcolando l’intensità di ogni sorgente luminosa, misurando il grado di rifrazione di un colore che attraversi un mezzo trasparente oppure determinando con uno spettrofotometro il colore esatto di ogni superficie espresso nelle lunghezze d’onda che essa riflette.

Lo stesso rigore scientifico, valido per la descrizione della luce, risulta però inapplicabile alla visione dei colori da parte dell’occhio umano, perché l’analisi della percezione cromatica deve addentrarsi nel complesso ambito della fisiologia della corteccia cerebrale e della psicologia, aperta alle reazioni soggettive. Si tratta di un arduo passaggio, in cui il colore da energia fisica si trasforma in sensazione.

La scienza, si sa, procede per teorie, sperimentazioni, definizioni e leggi, perché questo è il processo conoscitivo della mente, il modo razionale per esplorare quel misterioso mondo che ci circonda, a cui diamo il nome di “realtà”. Della luce possiamo definire sia la lunghezza d’onda, cioè la distanza tra due onde successive, «generate da un movimento di cariche elettriche o dalle transizioni energetiche che avvengono a livello di molecole, di atomi o nuclei», sia la frequenza, cioè il numero di oscillazioni al secondo, ma con quali attributi definire i colori?

A partire dal XIX secolo si riconoscono a essi tre fondamentali attributi: tinta, saturazione e luminosità.

Per tinta, detta anche “tonalità” del colore, s’intende quel termine con cui diamo un nome al colore (rosso, verde, giallo, ecc.), cioè alle lunghezze d’onda emesse dagli oggetti. L’occhio umano ne riesce a distinguere circa duecento.

Con luminosità o “brillantezza” s’indica la sensazione di cupezza o di chiarezza che percepiamo in un colore, che può apparirci vivo o smorto, a seconda della percentuale di bianco o di nero presente nella tinta. Il giallo, per esempio, ci dà facilmente un’idea di luminosità, mentre il viola è classificato come scuro.

La saturazione o “purezza” indica invece la vivacità del colore, cioè il grado di concentrazione di una tinta rispetto all’eventuale contenuto di un acromatico (bianco, grigio, nero). Così l’azzurro cupo appare saturo, a differenza del rosa, per la quantità di bianco che sembra presente nel miscuglio.

Questi tre attributi sono interdipendenti. Basta modificare la lunghezza d’onda, ritoccare il grado di saturazione e aumentare o diminuire l’intensità della luce, perché cambi la tinta.  Se alteriamo la lunghezza d’onda o il grado di saturazione, cambia la luminosità. Analogamente un mutamento della tinta, delle lunghezze d’onda e un aumento d’intensità della sorgente luminosa alterano la saturazione. È per questo che i mercanti e gli intenditori di stoffe fin dall’antichità, pur non conoscendo in teoria i tre fondamentali attributi del colore, tuttavia in pratica si comportavano di conseguenza, esaminando i tessuti sempre alla luce del sole e non all’interno della bottega.

Ma questi attributi, come si diceva, non sono più di competenza della fisica, bensì rientrano nell’ambito fisiologico e psicologico, quando consideriamo i processi che ci permettono di percepirli e gli effetti che essi producono dentro di noi. Se da una parte il percorso del colore, dai fotorecettori, attraverso le cellule nervose della retina e lungo il nervo ottico fino all’area visiva della corteccia, costituisce una processo ancora difficile da definire, la questione si complica quando si esaminano gli aspetti psicologici della visione del colore, perché qui il cervello mostra reazioni strane e persino soggettive, come la cosiddetta “permanenza del colore”.

Alcuni esperimenti rivelano davvero delle sorprese. Se, per esempio, proiettiamo una diapositiva a colori di un’automobile rossa su uno schermo verde, questa ci apparirà grigia. Questo è normale (così almeno lo si considera), perché sappiamo che i colori complementari (rosso e verde) si neutralizzano reciprocamente, producendo il grigio. Il fatto insolito appare invece quando all’osservatore è data prima la possibilità di vedere il colore “reale” dell’automobile proiettata su uno schermo bianco: mutando successivamente il colore dello schermo, egli continuerà a vedere l’immagine con il proprio colore, benché lo sfondo sia diventato verde. Dal che si deduce che l’uomo non solo vede col cervello, ma può addirittura vedere con quella parte in cui risiede la memoria.

In questi casi il variare delle condizioni di illuminazione non incide sulla visione, e il fenomeno in questione, che è uno degli aspetti della permanenza del colore, viene per l’appunto definito come “il colore della memoria”. Un esempio più comune potrebbe essere quello di un uomo che possiede una macchina di un determinato colore: alla luce artificiale di un lampione o col variare della luminosità solare egli vede sempre lo stesso colore, che ben conosce, mentre un passante, che non conosce il “vero” colore potrebbe vedere l’automobile con sfumature o tinte anche molto diverse.

Nell’ambito della ricerca sulla permanenza dei colori un aspetto importante è costituito dagli “indizi” forniti all’osservatore. Esperimenti di laboratorio hanno rivelato la loro importanza ai fini della permanenza del colore, senza i quali il fenomeno non si verifica. Se infatti osserviamo una scatola rossa, la vedremo sempre di un unico colore uniforme, anche qualora fosse in parte oscurata dall’ombra. Ma se proviamo a guardare attraverso un tubo stretto la parte di un oggetto che potrebbe esserci ben noto, per esempio un frutto, senza avere tuttavia la possibilità di identificarlo, quella sezione assumerà qualsiasi colore a seconda della luce che l’illumina, perché la memoria non sarà in grado di suggerirci il colore.

Il primo ad avanzare congetture sulla visione fu Isaac Newton nel 1704, quando pubblicò Opticks. Nel febbraio del 1672 aveva enunciato la sua teoria della luce e del colore, ma si era limitato a osservazioni di carattere fisico, studiando lo spettro solare prodotto dal prisma. In Opticks invece avanza possibili spiegazioni su come l’occhio vede il colore e queste vengono in parte presentate come “quesiti” per i futuri ricercatori (con l’intento di «comunicare ciò che io ho provato e lasciare il resto agli altri per più approfondite indagini»).

Tra i più significativi quesiti, destinati ad avere poi importanti sviluppi, leggiamo: «Non potrebbe darsi che l’armonia e la discordanza dei colori derivino dalla misura delle vibrazioni che giungono al cervello attraverso le fibre dei nervi ottici, così come l’armonia e la discordanza dei suoni derivano dalla misura delle vibrazioni dell’aria? Vi sono infatti alcuni colori che, osservati assieme, si accordano l’uno con l’altro, come quelli dell’oro e dell’indaco, mentre altri non si accordano».

Quasi un secolo dopo questa congettura veniva convertita in una teoria specifica della visione dei colori, tuttora sostanzialmente valida, ad opera del medico e fisico inglese Thomas Young, che nel 1801 ipotizzò nell’occhio umano la presenza solo di tre tipi di fotorecettori, ciascuno sensibile a un colore specifico, secondo il criterio per cui le luci colorate che si mescolavano su uno schermo potessero mescolarsi anche sulla retina, respingendo perciò l’idea che l’occhio disponesse di tanti tipi diversi di fotorecettori quanti sono i colori dello spettro. Riconobbe così i tre colori base sensibili ai fotorecettori nel rosso, nel giallo e nel blu, in seguito, con maggiore correttezza, nel rosso, nel verde e nel violetto (oggi il terzo colore è considerato il blu).

La teoria dei ricettori a cono rispondenti ai colori fondamentali, o “tricromatica” è oggi riconosciuta e nota come teoria Young-Helmholtz, dal fisico e psicologo tedesco che ne approfondì gli sviluppi, ma, come ebbe allora sostenitori e oppositori, resta tuttora valida e in parte controversa. Il colore è un’energia, una vibrazione, una sensazione, qualcosa di straordinario che esiste, eppure non ha una realtà certa e assoluta.

Cesare Peri

       

 

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