Esiste un modo sano e un modo malato di amare? Saremo pure inclini ad amare follemente, ma forse dovremmo considerare la possibilità di amare saggiamente. L’amore in sé è sempre sano, è un sentimento positivo, la base su cui origina e cresce l’erba del giardino del nostro spirito. È il nostro modo di viverlo che può essere sbagliato, che può renderlo “malato” dando vita a fitte dinamiche di manipolazione affettiva che saturano lentamente il cuore, la mente e il corpo.
Quando siamo legati in modo rigido e chiuso a qualcuno, accecati da sentimenti che rimandano alla gelosia e all’esclusività, l’amore non sta assolvendo la sua funzione creatrice, ma si sta lentamente trasformando in un marasma di energia che ci tiene legati all’altro in modo fisso.
Sebbene l’amore arricchisca la nostra vita, permettendoci di diventare una fonte inesauribile di gioia, tuttavia questa vibrazione primordiale, oltre a “incoronarci”, può anche “crocifiggerci”, nel senso che il dolore che si genera nel dover abbracciare il proprio percorso di vita, e che inevitabilmente mobilita la stabilità dei rapporti che abbiamo più a cuore, può farci soffrire altrettanto profondamente che gioire. Gioie e dolori sono spesso separati da un confine molto labile e può bastare una semplice sterzata verso la spinta nella realizzazione dei propri bisogni a mettere in discussione “il senso di ciò che ne sarà di me, degli altri e del relativo rapporto affettivo”.
Il dolore origina sempre da un modo poco sano di amare me o l’altro, una componente importante dello sviluppo psicologico, attraverso il quale possiamo arrivare a comprendere molti aspetti della nostra personalità, a modificare lo stile di vita, a imprimere cambiamenti al nostro modo di essere. L’uomo, d’altra parte, raramente apprende qualcosa nei momenti di gioia, mentre impara molto quando soffre: è come se i sistemi biologici della gioia, apparentemente, lavorassero a un livello più superficiale di quelli del dolore, lasciando meno tracce nella nostra memoria. Ma il dato incredibile è che non esiste nessuna differenza funzionale nel nostro cervello, in quanto tali emozioni coinvolgono e accendono le stesse strutture cerebrali, come l’amigdala e altre aree del lobo limbico e della corteccia.
Eppure non esiste vera evoluzione senza essere passati dapprima per il sentiero spinoso della sofferenza. È questa la molla che ci permette di elevare le nostre frequenze, di risollevarci verso uno scopo più alto di vita apprendendo dai nostri errori. Ma c’è pure chi si ostina a non coglierne il vero significato, perdendosi il senso della crescita che essa porta con sé. I problemi vengono visti come ostacoli da evitare, la sofferenza come una punizione che non meritiamo.
Quando la sofferenza si perpetua dentro di noi, c’è sempre un modo errato di vivere l’amore, di sperimentare pienamente questo flusso di energia, in modo tale che possa espandersi all’esterno e permettere al bello di realizzarsi e alla felicità di giungere. Il vero cammino della realizzazione di sé si fonda sull’abbandono di ciò che non siamo, di quello che amiamo e ci rende stabili ma infelici. Otteniamo la reale libertà quando lasciamo andare le situazioni che non riflettono la nostra perfezione, cambiando il nostro modo di rapportarci a queste. Non farlo, invece, conduce a perpetuare il malessere e a vivere in una forma di amore non sana, rinunciando e precludendosi il cammino verso l’autorealizzazione di sé e della propria anima.
Carmen Di Muro
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