G. Franco vive a Trieste, la sua occupazione è di bidello in un Istituto Tecnico. Ha 64 anni. Vive da solo in un alloggio assegnatogli dal Comune per le sue difficoltà economiche e di inserimento sociale. Da diversi mesi è assente dal lavoro per una ricorrente “sindrome depressiva con grave fobia sociale”. Così viene certificata la sua sofferenza nella cartella clinica che mi presenta durante la consultazione psicoterapica. E’ l’ultima certificazione di una serie infinita di dichiarazioni mediche e psicologiche che attestano la sua “patente” di disadattato sociale per psicopatologia.
Ha cercato, “pellegrinando” in numerose regioni d’Italia, conforto alla sua sofferenza chiedendo aiuto ovunque: psicoterapeuti privati, psichiatri, comunità terapeutiche, case alloggio, centri di ospitalità religiosi e laici, comunità psichiatriche protette, servizi di igiene mentale…
Con nessun terapeuta ha costruito una relazione significativa. “Nessuno mi ha capito, nessuno ha saputo accogliere i miei bisogni, siete tutti una massa di incapaci voi operatori dello psichico, incapaci di aiutare veramente chi soffre”. Così mi riferisce irato. E’ difficile contenerlo ed accettarlo con il suo modo ipercritico ed insofferente ad ogni tentativo di stabilire una comunicazione composta e civile.
E’ continuamente polemico, aggressivo. Straripante di agitazione. Un fiume in piena di rancore. Pronto ad esplodere in un acting-aut di fronte ad un gesto o ad una frase ritenuta da lui inopportuna.
Si presenta alto, robusto, massiccio. E’ vestito, nonostante l’età e le difficoltà economiche, con una certa ricercatezza. Il suo abbigliamento è giovanile. Nella borsa tiene trattati di psichiatria e psicopatologia. Mi mostra delle pagine per indicarmi le definizioni cliniche dei suoi sintomi.
Contrasta il suo aspetto fisico con i pensieri che manifesta di disistima e di bisogno di totale accudimento che esprime.
La sua età psichica, che porta a questo primo colloquio, è di un bambino di pochi anni, fissato ad una fase orale.
Con il suo comportamento risveglia emozioni di disagio, ansietà, irritazione e aggressività. Mi trattengo dal non dirgli apertamente: “Ma datti una mossa, smettila di lamentarti, di fare il bambino arrabbiato, assumiti le tue responsabilità sul lavoro, cercati una compagna, che non ti manca nulla!”
Non è solo una dinamica “controtransferale”, o l’azione su di me dei neuroni a specchio che mi portano a queste emozioni negative.
In G. Franco è presente un imprinting infantile di rifiuto, di non accettazione ed il suo programma lo ripete in ogni relazione umana. Il suo inconscio lo porta ad essere respinto, rifiutato. Fa di tutto perché ciò avvenga.
Come G. Franco ho conosciuto diversi pazienti. La norma era di finire nella loro ragnatela, nella loro trappola mentale ed agire in modo che si ripetesse il solito imprinting del rifiuto.
La conoscenza delle tecniche di trasmutazione delle emozioni negative ed il lavoro personale sull’apertura del cuore mi hanno permesso di pormi con G. Franco con compassione, disponibilità autentica, con amore altruistico e senza giudizio. Pertanto, al di là delle regole e dei limiti del setting professionale e dei reciproci condizionamenti mentali, qualcosa di più sottile e profondo è avvenuto tra noi come scambio inconscio.
G. Franco lo ha percepito e, a poco a poco, ha cominciato a porsi in modo più collaborante e disponibile. Insieme abbiamo cercato qualche passaggio, o qualche tecnica, che lo aiutasse a soffrire di meno.
Contemporaneamente la mia mente inconscia ha intuito che probabilmente la sua sofferenza è legata ad un suo karma che deve estinguere. Le immagini giunte al mio inconscio sono state quelle di un sacerdote, di uno sciamano, appartenente ad una cultura sudamericana che, per propiziarsi delle divinità, coordinava e, probabilmente completava con l’uccisione, dei riti sacrificali con delle vittime umane.
Il volto di quel sacerdote era simile ai lineamenti che scorgevo nel viso di G. Franco.
Non ho parlato con lui di queste mie immagini mentali, o forse intuizioni, riguardanti il suo karma. Qualcosa comunque il suo inconscio deve aver intuito o forse si è semplicemente sentito un po’ capito e non giudicato.
Di fatto, alla fine dell’incontro, è uscita questa sua frase: “Dottore possiamo fissare un prossimo appuntamento. Mi piacerebbe fare l’ipnosi regressiva per capire qualcosa di più di me stesso. E’ possibile, dottore?”.
Sono contento di aver trasmutato le mie emozioni negative iniziali, perché ciò ha permesso di aprire uno spiraglio nel buio della vita di G. Franco…
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