Dicevamo, qualche puntata fa, che i bambini dispongono di un naturale senso della felicità che li guida, o meglio li guiderebbe, nelle loro scelte quotidiane, se gli adulti non intervenissero a deviarlo, forzarlo, stordirlo.
Secondo gli adulti, come notava appunto Mosé, i bambini «non sanno distinguere il bene dal male»: non capiscono come va il mondo e cosa deve essere importante e cosa no per le persone perbene. Avviene in tal modo, durante l’inevitabile periodo chiamato apprendimento, che il nostro originario senso della felicità sia messo da parte. Ci abituiamo a considerarlo sbagliato, disturbante, inadeguato; e poiché è parte integrante di noi, ci abituiamo in realtà a considerare noi stessi sbagliati, disturbanti, e inadeguati, e a negare noi stessi per irreggimentarci nel modo di pensare e di vivere degli altri.
È così che prende forma in noi il senso di colpa propriamente detto: la sensazione, cioè, che vi sia dentro di noi qualcosa di colpevole da cui dobbiamo stare in guardia, e che sempre ci perseguita più o meno sottilmente. Ma quel qualcosa non è che il nostro originario senso della felicità, sommato al dolore di averlo dovuto combattere, negare, condannare. È insomma, fondamentalmente, una forma di rimpianto, di nostalgia di noi stessi.
È interessante notare che moltissimi equivocano, qui, e nel linguaggio corrente usano il termine senso di colpa come un sinonimo di rimorso: vi sarà capitato di sentir dire «Ho un gran senso di colpa per aver commesso quell’azione».
È un errore lessicale, ma non solo. È anche l’indicazione di un preciso rapporto tra il senso di colpa e le colpe che uno commette. La differenza lessicale tra i due termini è grande: il rimorso ha una causa; il senso di colpa è una causa. Il rimorso deriva da qualche tuo errore, o cattiva azione, o buona azione mancata. Il senso di colpa è un disagio che, come dicevo, si prova invece continuamente, e indipendentemente dalla cattiveria delle azioni che uno compie.
Nelle persone più sensibili, infatti, il senso di colpa propriamente detto può destarsi anche laddove non ve ne sarebbe alcun motivo: quando, per esempio, sono molto contente, oppure quando stanno per raggiungere un qualche risultato a cui tengono molto, e tutt’a un tratto se ne sentono incapaci, perché sentono di non meritarlo.
In altri, nella stragrande maggioranza, il senso di colpa si esprime quotidianamente sotto forma di conformismo, di astio o orrore per le novità, di avversione per chi pensa in modo originale o per chi, semplicemente, appaia sicuro di sé. È del tutto naturale: chi si sente in colpa e inadeguato, ha bisogno di farsi accettare da altri, dai più, di somigliare a loro, di confondersi con loro, perché ci si accorga di lui il meno possibile.
Nelle persone più energiche, infine, il senso di colpa diventa un problema tanto grave, da spingerle a commettere qualche azione ritenuta cattiva dalle altre due categorie di persone, e a caricarsi in tal modo di rimorsi: proprio perché il rimorso e il senso di colpa sono due cose diverse, e il primo è meno soffocante del secondo.
Questi sono precisamente i «peccatori» di cui parlava Gesù. Esprimono sia l’intensità di quella nostalgia di se stessi, sia la protesta contro il mondo adulto e perbene che li aveva conculcati quand’erano bambini, e sia, anche, la disperazione di non trovare, al di là del senso di colpa e del rimorso, nessun’altra via praticabile. Per questi, il metanoein, l’accorgersi, la riscoperta dell’infanzia sono veramente una «buona novella», mentre per gli altri è una teoria molto più ostica.
Igor Sibaldi
(continua)
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