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34. PERCHÉ È COSÌ DIFFICILE? VERSO LA COMPASSIONE

17/10/18

A volte l’uso delle parole ci confonde; continuare a utilizzarle in modo sbagliato porta un termine ad assumere significati diversi, così se diciamo di qualcuno che ci fa compassione intendiamo il più delle volte che lo riteniamo un poveraccio e in fondo a noi proviamo un senso di disprezzo, oppure nel migliore dei casi gli mandiamo un distratto pensiero di sufficienza.

La compassione, o meglio ciò che ben si intende nel Buddismo con il termine compassion, è veramente altro. Il significato etimologico di questa parola, che deriva dal latino, è cum (“insieme”) patior (“soffro”), mentre ora il suo uso si avvicina di più al concetto di pietà. Invece la compassione è la partecipazione alla sofferenza dell’altro, quindi non un sentimento di pena che va dall’alto in basso, poiché è soffrire con l’altro e aiutarlo nel dolore come se fosse il nostro. È chiaro che questa azione per essere compiuta richiede il meglio di noi stessi. Si parla di una comunione intima e difficilissima con un dolore che non nasce come proprio, ma che se percorsa porta a un’unità ben più profonda e pura di ogni altro sentimento che leghi gli umani. È la manifestazione di un tipo di amore incondizionato che strutturalmente non può chiedere niente in cambio.

Il sentimento della compassione è strettamente connesso con le capacità del nostro cuore. Recentemente la scienza ha scoperto che il cuore “pensa”, infatti più di quaranta milioni di neuroni sono insediati nella punta di questo organo. Ciò lo rende capace di elaborazioni e il suo campo elettromagnetico è migliaia di volte più potente di quello del cervello. Questo vuol dire che il cuore, nei suoi moti e nei suoi pensieri, è potentissimo.

La difficoltà per tutti noi di vivere la compassione è attinente anche al fatto che ci sono sofferenze che non ci toccano, perché sono così lontane da noi che non riusciamo a calarci in quel tipo di dolore. Così nella nostra società opulente, dove il problema è il sovrappeso e la lotta quotidiana con la dieta di turno, pensare che ci sono persone che soffrono la fame e ne muoiono diventa distante e asettico. La compassione che possiamo esercitare nella nostra quotidianità richiede tutto il nostro impegno. Nella nostra famiglia, quando percepiamo la sofferenza di chi ci circonda, molto spesso tale situazione ci crea fastidio, perché prima di tutto pensiamo a ciò che in questo caso ci viene tolto o chiesto: tempo o danaro. Se invece ci fermassimo un attimo per ascoltare, pronti ad accogliere e a conoscere “quella sofferenza” e farla nostra, ecco che molti problemi familiari sarebbero risolti: i figli finalmente sarebbero compresi e i mariti o le mogli supportati.

Da un punto di vista spirituale la compassione è la qualità divina del cuore. Solo un cuore puro, dove la scintilla divina si manifesta, può provare compassione che altro non è che il sentire il prossimo come parte di se stessi, accogliere il dolore dell’altro come fosse il proprio e interagire senza alcuna finalità egoistica.

Si può provare compassione verso noi stessi e cosa significa? Provare compassione nei confronti di noi stessi significa essere aperti alla nostra sofferenza, senza evitarla o senza disconnetterci, ma con il desiderio di alleviarla e di curarci con gentilezza. La compassione verso se stessi comprende anche il guardare con un atteggiamento di non giudizio le proprie inadeguatezze e i propri fallimenti in modo da comprendere che possiamo sbagliare all’interno di un mondo che è di per sé fallibile. Se sviluppiamo la capacità di provare compassione nei confronti di noi stessi, miglioriamo anche quella nei confronti degli altri. Il sentimento di compassione per noi stessi è simile al sentimento di perdono agli altri e ci rende simili sia come vittime sia come carnefici in quella che può essere una reciproca esperienza di fallimento.

Dando compassione a noi stessi ci forniamo quindi di quel presupposto sicuro che ci è necessario perché il processo di cambiamento possa svolgersi in modo positivo. Nessun cambiamento infatti è possibile se prima non ci sentiamo sicuri. Nella compassione verso se stessi è necessario distinguere ciò che è compassione da ciò che è una forma di vittimismo. Superare il vittimismo ci rende capaci di comprendere e di assumerci la responsabilità della nostra vita e dei nostri errori. Diventiamo cioè più consapevoli di come il nostro dolore ha un corrispettivo nel dolore dell’altro.

In pratica

Ma c’è un modo per esercitarci nella compassione? Per riuscire a essere pronti alla condivisione della sofferenza altrui dobbiamo fare appello alla parte migliore di noi, all’amore altruistico che è in ognuno di noi e che non siamo riusciti ancora a liberare.

Una tecnica che ci può aiutare è quella del respiro consapevole. Respirare è l’azione che meglio identifica l’accoglienza degli altri dentro di noi. Nell’aria c’è tutto il mondo e tutte le volte che inspiriamo noi lo facciamo entrare. Abituiamoci a respirare durante la giornata, concentrandoci sull’azione del respiro. Nell’inspirazione facciamo entrare il mondo e nell’espirazione condividiamo con esso ciò che è nostro. Questa azione fatta in questo modo ci rende consapevoli che siamo tutti interconnessi e che non ci sono confini tra dentro e fuori. Noi siamo parte del Tutto.

Anche la floriterapia ci può aiutare in questo compito. Possiamo equilibrare e potenziare il nostro 4° Chakra che si trova all’altezza del cuore. La sua energia ci permette la migliore e più equilibrata accoglienza del mondo. Ottimo rimedio è l’essenza himalayana Ecstasy che è specifica per questo chakra, infatti scioglie le emozioni negative del cuore, dà la consapevolezza della forza dell’amore, sia nel saperlo dare sia nel saperlo accogliere. Favorisce il senso di espansione, la profondità dei sentimenti e la generosità. Prendiamone due gocce pure direttamente sulla lingua una volta al giorno.

 

Jose Maffina

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