Chi di noi non è turbato quando incrocia lo sguardo di chi chiede la carità?
I loro volti ci sembrano tutti uguali, ma ciò che ci turba, che serpeggia dentro di noi, è che chi sta chiedendo sia un truffatore, un impostore, uno legato a un racket di mendicanti, uno che vive alle spalle degli altri…
Tutti così? Forse no. In ogni caso tiriamo dritto e non ci fermiamo se ci chiamano, li superiamo come in uno slalom se tentano di bloccarci, non distogliamo lo sguardo dal cellulare se siamo in metropolitana.
Perché, in fondo in fondo, ci sentiamo a disagio nel non dare nulla? È questa la carità? Io credo proprio di no.
La carità è altro, non è una monetina lasciata cadere in un cappello. La vera carità è mettersi a disposizione, è essere partecipi di ciò che sta avvenendo intorno a noi. Tutti i volontari del mondo che prestano la propria opera in aiuto agli altri sono la testimonianza della carità. Organizzazioni come Medici senza Frontiere, Emergency o tutte le ONG sparse per il mondo ci dicono quante persone mettono la propria vita al servizio degli altri. Fare volontariato è una missione che ti eleva, ti fa sentire bene, ti senti una piccola rotella in un immenso ingranaggio che funziona per il Bene.
Ma esiste una carità che ci tocca più da vicino e a volte è molto più difficile mettere in atto. Gli inglesi dicono “Charity begins at home” (la carità comincia da casa) e, purtroppo, su questo gradino molti di noi inciampano. Curare il proprio genitore ammalato o non più autosufficiente ci costa molto di più, e ci sembra ci dia molto di meno, che fare una transvolata in Amazzonia come volontari in una missione. Curare chi ci sta accanto non ci fa sentire eroi, non dà enfasi alle nostre azioni, perché – diciamolo – curare il proprio genitore è un dovere, non una scelta. Ma è proprio quando la nostra azione è sottotraccia, quando non ci sono clamori ma solo una continua fatica fatta di quotidianità e di banalità, che noi facciamo crescere la vera carità.
Esserci, anche se a volte il genitore non se ne accorge: sorridere quando sono le lacrime che si fanno strada in fondo agli occhi, tacere mentre quello che vorremmo dire è “Basta!”, è la strada più impervia, dove il più delle volte devi camminare da solo, ma, se ce la fai se lasci che il tuo cuore fiorisca, ecco che la carità riempie la tua anima e la tua vita e allora senti che il viaggio non sarà così difficile.
In pratica
Possiamo esercitarci nella carità? Perché no, dico io! Prestiamo attenzione a chi abbiamo vicino e non neghiamoci in caso di bisogno. Potremmo anche andare un paio di ore alla settimana in qualche luogo dove hanno bisogno di persone che confortino, aiutino o a volte si limitino solo ad ascoltare: ospedali, ospizi, orfanotrofi, associazioni o altre organizzazioni di questo tipo.
Se pensiamo che sia superiore alle nostre forze e la sola idea ci atterrisce, potremmo tentare di abbattere questo schema dicendo questa frase davanti allo specchio per 30 volte di seguito per 21 giorni consecutivi (se ne saltiamo uno, ricominciare daccapo):
“Io sono in grado di aprire il mio cuore all’aiuto verso gli altri”
Guardiamoci sempre diritto negli occhi, se saremo costanti ci stupiremo dei risultati
Floriterapia
Un’essenza che può aiutarci nel nutrire e far crescere il sentimento di carità dentro di noi è Ecstasy, essenza Himalayana, che lavora sul quarto Chakra (quello del cuore), sciogliendo le nostre resistenze e le nostre paure. Ci apre all’amore verso noi stessi e verso gli altri nella massima accoglienza. Perché potenzia l’amore, l’empatia, la profondità dei sentimenti e l’amore universale. Ci fa superare la rigidità, l’amarezza, la gelosia, il non sentirsi amati, la disillusione, la mancanza di fiducia negli altri. Se ne prendono due gocce pure sulla lingua una volta al giorno.
Jose Maffina
Autrice del libro I codici della felicità
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