Nel catechismo, la temperanza è definita come la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati.
Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La temperanza, quindi, coinvolge il nostro rapporto esistenziale con i beni materiali, testimonia la nostra capacità di vivere con ciò che ci necessita rifuggendo dal superfluo, inoltre è inerente anche al nostro modo di essere con l’uso che facciamo di ciò che ci circonda. Sotto questo aspetto la temperanza è la virtù più disattesa, svalutata e assolutamente non perseguita dalla nostra società e fa a pugni con il mondo in cui noi viviamo, dove consumare è l’imperativo; per esempio le apparecchiature che una volta duravano una vita ora si guastano dopo un paio di anni e la riparazione è così costosa che conviene comprare un elettrodomestico nuovo.
Il significato profondo della temperanza è il non attaccamento alle cose, il rispetto verso ciò che ci circonda, è l’equilibrio tra la materia e lo spirito. Allora quello su cui dovremmo riflettere è come agiamo nel nostro quotidiano, come è la nostra vita. Chiediamoci se stiamo mettendo in campo la nostra temperanza, se evitiamo di stipare gli armadi di vestiti o quanto rispetto abbiamo del nostro territorio.
Viviamo come dei conquistatori o come degli ospiti educati? Diamo spazio alle nostre esigenze profonde, spazio al nutrimento del nostro spirito? Le risposte che daremo ci faranno capire quanto siamo temperanti e quanto armonia c’è nella nostra vita. La temperanza, se esercitata, dà spazio a chi veramente siamo, ci dà visioni più ampie e più profonde e ci rende armonici; otteniamo quell’equilibrio che placa le passioni e diventiamo allineati con il nostro cammino.
Ho sentito questa bellissima frase che sintetizza la temperanza: “La ricchezza non è data dalle cose che abbiamo, ma dalle cose a cui rinunciamo”, non mi ricordo però chi l’ha detta o scritta, ma trovo che sia perfetta. Questo non vuol dire che la temperanza sia essenzialmente rinuncia. Essa non significa sacrificio, ma principalmente giusta scelta.
Solo quando acquisiamo la percezione delle nostre vere necessità, e ci accorgiamo che sono minime, ecco che si sviluppa dentro di noi la temperanza. Siamo in grado di distinguere ciò che ci è utile da ciò che è superfluo. In questo modo noi non rinunciamo, come non rinuncia la persona che, sazia a fine pranzo, rifiuta il dolce.
La temperanza ci rende sazi, non dipendiamo da acquisizioni esterne, siamo completamente centrati e in equilibrio con la nostra vita, che non è una vita misera o squallida, ma pregna di capacità di valorizzare ciò che merita, quello che in un cammino spirituale arricchisce veramente la nostra esistenza. Non siamo come bambini davanti alla vetrina dei giocattoli che pensano che la felicità sia solo possederli; siamo in grado di capire che nessun possesso, nessuna concessione alle nostre debolezze può farci fare un passo in più, anzi ci inchioda davanti a quella vetrina e a quel punto è impossibile riprendere il cammino.
Sotto un aspetto strettamente spirituale, la temperanza può essere definita come la forza divina dentro l’Uomo. Si fa sentire come un’eco che porta l’Uomo a sintonizzarsi solo su ciò che è utile a lui per poter camminare privo di orpelli, privo di sovrastrutture materiali che come zavorre impediscono il suo passo veloce e sicuro. Più l’Uomo è attaccato alla materia, se ne fa recipiente e la persegue come realizzazione del desiderio di avere, più egli si allontana da questa forza che è dentro di lui.
La temperanza è quindi possibile solo in persone che dedicano la loro vita all’ascetismo come monaci o santoni? Siamo spacciati noi che viviamo in una società consumistica?
Io credo che l’evoluzione spirituale che dà più merito è quella che viviamo tutti noi all’interno della nostra vita quotidiana, con tutti i suoi sassi in cui possiamo inciampare, con tutti i suoi trabocchetti in cui possiamo cadere. Il nostro cammino spirituale è possibile e non abbiamo bisogno di rifugiarci in una grotta o chiuderci in un ashram per viverlo pienamente. Se il nocchiero si può addormentare veleggiando in un mare piatto con vento favorevole, noi – che guidiamo la nostra barca in mezzo ai flutti e ai marosi – saremo vigili e non perderemo mai di vista la luce del faro che ci guida. Saremo senza paura perché la temperanza è una forza che dobbiamo alimentare con le nostre scelte quotidiane, e saranno facili, infatti questo succede sempre quando abbiamo la giusta prospettiva che ci indica cosa fare e cosa non fare.
In pratica
Quando ci rendiamo conto che il superfluo e il desiderio di avere di più corrompono la nostra vita perché la deviano su obiettivi fasulli, ecco che siamo pronti all’equilibrio, pronti a concentrarci su altro, su un benessere più profondo; per riuscirci, aiutiamoci con la meditazione. Entrare nel nostro silenzio interiore ci dà la percezione del nostro profondo, del nostro valore, siamo in contatto con noi stessi e percepirlo è la ricchezza più grande.
Un fiore che può aiutare ad andare oltre i limiti della materialità come fine esistenziale è Holly, fiore di Bach indicato anche per chi soffre di invidia, per chi non sa amare ciò che ha e pensa che “l’erba del vicino è sempre più verde”. Prendiamo una goccia in un bicchier d’acqua alla sera sorseggiandolo. Aprirà la nostra mente e il nostro cuore, rendendoci pronti a sintonizzarci con l’Universo.
Un altro fiore è Cerato, detto anche il fiore dell’Illuminazione, ci permette di capire qual è il nostro cammino e cosa serve portare con noi: solo l’essenziale, ciò che è utile per proseguire spediti senza inciampi, prenderne una goccia pura direttamente sulla lingua una volta al giorno.
Jose Maffina
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