Qualsiasi percezione di disagio con se stessi nasce da un aspetto di noi che abbiamo allontanato dalla nostra consapevolezza. Tutto ciò che rifiutiamo ci diventa estraneo e costituisce un nucleo autonomo della nostra personalità, che agisce per conto suo e a nostra insaputa.
Il risultato complessivo di questi nuclei scissi risuona con una sensazione di
separazione da noi stessi: io non mi sento intero. Di conseguenza anche la vita che scorre intorno a me, gli avvenimenti, i fatti, gli incontri, sono vissuti come cose che accadono, scollegati da noi.
Il primo enunciato quindi è: se sono separato da me, mi sento separato dalla vita.
Il secondo enunciato è: se mi sento separato dalla vita, subisco ciò che mi accade.
Il terzo enunciato è: non riconosco la responsabilità di ciò che mi accade .
Questo è il modo di vivere che impedisce di osservare che ogni avvenimento è lo specchio di ciò che siamo, che c’è sempre una certa parte di responsabilità in ciò che ci accade, anche se piccola, e che gli eventi disastrosi sono il risultato di alcune disarmonie della personalità che non vogliamo ammettere.
Non bisogna cadere nella trappola di sentirsi vittime della vita. Se un evento che ci crea sofferenza si ripete spesso nella nostra storia vuol dire che in noi c’è un atteggiamento che favorisce quell’evento.
Se una persona ci critica per qualcosa, bisogna fermarsi a riflettere; certamente ci sarà una sua parte di proiezione nei nostri confronti, ma contemporaneamente anche noi siamo corresponsabili perché una parte di noi ha fatto da collegamento a quella critica.
Nel Vangelo ciò è detto con parole forti: non guardare la pagliuzza nell’occhio dell’altro, ma guarda la trave che è nel tuo occhio.
Il guerriero quindi non incolpa la vita, non si lamenta, non perde la sua dignità, ma si guarda dentro con sincerità per riconoscere ed isolare i semi della sua distruttività verso se stesso e gli altri…
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