Tutto nella vita è soggetto a trasformazione e tutto può essere perduto; anzi, la perdita è l’esperienza più usuale della vita. Gli amori svaniscono, le persone care ci abbandonano, amici, parenti, genitori. Si perde il lavoro, si perdono i soldi; gli oggetti a cui siamo affezionati si rompono o possono essere rubati.
Infine, ma prima come importanza, la nostra vita può essere perduta ad ogni istante. Appena nasciamo iniziamo a morire.
Eppure è proprio su questi temi di perdite ed abbandoni che siamo meno “attrezzati”. Viviamo come se fossero gli altri o le cose a darci il senso della nostra vita. Per tale motivo siamo sempre nel timore della perdita, come se noi non avessimo una nostra autonoma pienezza.
C’è un solo modo per uscire da questa sofferenza: sviluppare realmente il contatto con la nostra Identità vera, il Cuore.
Non è sufficiente elaborare psicologicamente le esperienze fondamentali di abbandono dell’infanzia (anche se è necessario), ma bisogna contemporaneamente aprirsi al contatto con l’Essenza seguendo una via di trasformazione interiore.
I monaci solevano ripetere: “Ricordati che devi morire”. La morte dovrebbe essere la compagna del guerriero, una presenza consapevole che dà il valore alle cose vere della vita e toglie valore a ciò che è relativo e parziale.
La dipendenza è il segno di tracce antiche di vuoti affettivi ed indica che c’è una parte bambina che non è stata accolta da noi stessi, non è stata riscaldata da noi stessi e non è stata fatta crescere.
Tutto si perde, tranne ciò che è diventato parte del nostro Sé immortale.
Se perdiamo una persona cara, non perdiamo il senso profondo di quella relazione che ci ha reso comunque più ricchi…
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